“Special relationship” alla pechinese. Tra M5S e Cina è sempre più amore. Un amore vissuto ormai alla luce del sole, senza infingimenti. La conferma è nella doppia visita che, in un piovoso weekend novembrino, il leader del movimento Beppe Grillo ha svolto presso l’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia: venerdì la cena con l’ambasciatore cinese Li Junhua e sabato, in giornata, un secondo incontro di oltre due ore, sempre nella sede diplomatica del quartiere Parioli a Roma.
Recentemente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha annullato la propria partecipazione al G20 in Giappone, è stato ospite d’onore a Shangai dove ha brindato a prosecco con il presidente Xi Jinping, il quale deve avergli perdonato la gaffe del novembre di un anno fa quando in una conferenza stampa, a Pechino, l’allora vicepremier pentastellato lo chiamò per due volte “Ping”. Di Maio ha fatto di tutto per farsi perdonare. È l’unico leader di un Paese democratico che ha parlato soltanto una volta di Hong Kong e lo ha fatto con le parole di un funzionario cinese: sono affari interni della Cina. Già a luglio, nelle prime settimane delle manifestazioni, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, suo fedelissimo, si era recato a Hong Kong senza proferire verbo sulle proteste. Di Maio è l’uomo che ha apposto la firma sul memorandum d’intesa per la Via della Seta. L’Italia è unico Paese fondatore dell’Unione europea ad aver sottoscritto un accordo che la stampa cinese ha celebrato come un successo geopolitico nazionale. La firma per la “Belt and Road Initiative” ha già comportato per il nostro Paese una facilitazione concreta nell’esportazione di arance via aereo (nello stesso tempo, il presidente francese Macron ha incassato un maxi ordine di Airbus dalla Cina, senza doversi inchinare, in ruolo ancillare, al Partito comunista cinese).
Uno sbaglia ma poi impara, si diceva, e i grillini il test di fedeltà con la Cina non lo sbagliano mai. Per non sbagliare, Di Maio, promosso alla guida della Farnesina nel Conte-bis, ha nominato come capo di gabinetto Ettore Sequi, già ambasciatore italiano a Pechino. Il 14 novembre scorso il ceo di Huawei Italia, Thomas Miao, ha pronunciato il discorso di apertura dell’evento “Smart company” organizzato a Milano dalla Casaleggio associati, la società di Davide Casaleggio che, in quanto presidente, tesoriere e amministratore unico dell’Associazione Rousseau, gestisce la piattaforma informatica e incassa ogni mese trecento euro da ogni parlamentare grillino (per un totale di circa 700mila euro nel 2018). Il manager Miao è lo stesso che ad ottobre, in occasione della inaugurazione dei nuovi uffici romani del colosso cinese delle telecomunicazioni è comparso in una photo opportunity con il sindaco della capitale Virginia Raggi, accorsa in loco per celebrare l’evento.
Sempre per non sbagliare, il 15 novembre il blog di Grillo, silente sulle proteste di Hong Kong, ha ospitato un intervento negazionista sulla repressione cinese contro la minoranza uigura, turcofona e di fede musulmana, nella regione dello Xinjiang. Eppure un dettagliato report dell’Unione Europea del gennaio 2019 evidenzia “le profonde preoccupazioni dell’Ue sui diritti umani nello Xinjiang, anche in relazione alla detenzione di massa, alla rieducazione politica, alla libertà religiosa e alle politiche di sinicizzazione”. Per non parlare delle numerose segnalazioni da parte delle Nazioni Unite e di organismi come Amnesty International che mostrano come il governo cinese abbia trasformato la regione in “un enorme campo di internamento avvolto nel segreto”.
Non è invece un segreto che il dossier 5G sia un argomento delicato tanto per il M5S quanto per il premier Giuseppe Conte. Quando ci sono in ballo cybersicurezza ed equilibri internazionali, il funambolismo non paga. Il tema, già terreno di scontro tra Lega e 5 Stelle attorno al “Golden power” governativo contro ogni minaccia informatica alla sicurezza nazionale, continua a suscitare diffidenza dalle parti della diplomazia statunitense. L’atteggiamento ondivago e, a tratti, dilatorio su un dossier così rilevante per la sicurezza nazionale non è stato apprezzato.
Mentre l’amministrazione Trump ha stabilito, in questi giorni, che le telco cinesi Huawei e Zte, già inserite nella “Entity List”, rappresentano “minacce alla sicurezza nazionale” e sono dunque escluse dal programma di sussidi federali di un valore pari a 8,5 miliardi di dollari, l’Italia resta un punto debole nella strategia di protezione da possibili attacchi cyber. In particolare, dopo il tormentato percorso del dossier nei mesi del Conte-uno, lo scorso 24 ottobre la Camera, con i voti favorevoli di 5S e Pd, astenuti Lega, Fi e Fdi, ha dato il via libera a un ddl sul “perimetro di sicurezza cibernetica nazionale”. La legge prevede che tutte le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici e privati fornitori di servizi strategici debbano rientrare in questo “perimetro” che sarà organizzato e verificato da due istituzioni: il Centro di valutazione e certificazione nazionale, istituito presso il ministero dello Sviluppo economico, e il Dipartimento informazioni e sicurezza, guidato dal generale Gennaro Vecchione (vicinissimo al premier Conte e implicato nella vicenda Russiagate all’esame del Copasir).
Insomma, sul 5G non c’è ancora un punto fermo. E questo, sommato alle plurime manifestazioni di un amore non più sottaciuto, genera fibrillazioni. Che l’Italia non sia più un alleato affidabile? Mao miao.