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Venezuela, Cile e Bolivia. La sfida globale dell’America Latina

La Bolivia è solo l’ultimo campo di battaglia dell’America Latina. Immense folle hanno occupato le piazze di La Paz e Santa Cruz. Le occupazioni sono pacifiche, non ci sono i saccheggiatori violenti che hanno inquinato le proteste in Cile e in Ecuador, ma la reazione del governo è brutale. I manifestanti chiedono la rinuncia del presidente Evo Morales, accusato di brogli di ogni tipo nelle ultime elezioni. Si tratta di un conflitto diventato inarrestabile. Morales ha modificato a suo piacere la costituzione, per ottenere la rielezione dopo 14 anni di potere assoluto. Indifferente a qualsiasi regola, pur avendo perduto il referendum che aveva bocciato la possibilità di ricandidarsi, ha forzato la mano e ottenuto le elezioni, contestate come mai dall’opposizione e dalla stampa libera.

La Bolivia è solo l’ultimo dei tasselli di una crisi continentale che negli ultimi anni sconvolto la politica dell’America Latina. L’epicentro resta il Venezuela. Un paese che, fino agli anni Novanta, aveva un sistema politico basato su una perfetta alternanza tra democristiani e socialdemocratici, un grado elevato di crescita economica, i problemi proprio dei paesi della periferia occidentale (povertà e corruzione), ma privo di rischi e pericoli autoritari. Una piccola tangentopoli venezuelana e una marea antipolitica portò al potere il colonnello ex golpista Hugo Chavez. Doveva riformare il paese, invece pose le basi per la prima dittatura latino-americana del XXI secolo: un regime basato su un misto di autoritarismo militare e semi collettivismo marxista, condito di una progressiva repressione delle istituzioni libere del paese.

Il chavismo ebbe successo nel costruire una narrazione condivisa da gruppi intellettuali-politici europei e statunitensi, che ne garantirono una versione romantica idealizzante, inversamente proporzionale al disastro sociale: il chavismo non solo ridusse le libertà, ma moltiplicò povertà e violenza, facendo del Venezuela uno dei paesi più poveri del continente. Il ruolo dirimente di Caracas emerse con prepotenza nel secolo, assumendo per molti aspetti nel continente il ruolo che Cuba aveva avuto nella Guerra fredda: una potenziale possibilità per le democrazie più fragili di una trasformazione social-autocratica simile. Certo il contesto era cambiato. La fine della Guerra fredda aveva determinato una notevole ritirata degli USA dal continente, non si vedevano ancora all’orizzonte le autocrazie asiatiche. Così pure Cuba, trasformata in un paradiso delle vacanze degli occidentali che guardavano con occhi romantici la povertà e la vita da caserma dei poveri cubani, poté sopravvivere gestita con mano di ferro dal regime.

I fratelli Castro furono tra i registi (insieme al brasiliano Lula da Silva) di un’alleanza delle sinistre latine: il Foro di Sao Paulo. Con una strategia frontista da post-guerra fredda, riuscirono a mettere insieme una piattaforma che andava dai narco-guerriglieri delle Farc in Colombia fino ai socialisti cileni (anche se molti socialdemocratici lo contrastarono e non aderirono). Il Foro iniziò una marcia nel continente. Negli anni Novanta i successi furono limitati, ma il disastro economico che portò il marchio della destra dei peronisti in Argentina, i fallimenti di forze liberiste in Ecuador e Bolivia, la brutale esperienza del presidente Fujimori in Perù, aprì la strada al successo del Foro.

Chavez aveva conquistato il potere nel 1998, diventando subito l’alter ego di Castro, che da quel momento stabilì una presenza politica e militare permanente in Venezuela. Alzando le bandiere della lotta alla corruzione e alla povertà, le forze del Polo conquistarono il potere in una dozzina di stati, anche se in pratica stabilirono due pratiche di governo molto diverse. Un misto di populismo democratico e capitalismo rampante segnò i governi di Cile e Brasile. Invece ben diversa, e fallimentare, fu l’esperienza di Cristina Kirchner in Argentina, populismo corruttivo e violenza simbolica. Ancora peggio, Morales in Bolivia e Correa in Ecuador, cercarono di demolire le opposizioni e costruire un modello simile al loro alleato Chavez.

Solo Colombia e Messico fecero eccezione. Nel primo caso (l’unico con un intervento importante degli USA, il Plan Colombia), il presidente moderato Alvaro Uribe riuscì nell’obiettivo storico di sconfiggere le potenti narco-guerriglie marxiste, disarmare i paramilitari e disinnescare la bomba del narco-traffico, normalizzando la democrazia colombiana. In Messico, invece, i primi presidenti che posero fine al monopolio dell’antico PRI (i conservatori Fox e Calderon) poterono garantire una consistente crescita economica, ma non a vincere la potente guerra dei cartelli del narcotraffico o a stabilizzare un paese travagliato da intense tensioni sociali.

Negli anni successivi si delineò una reazione su larga scala di forze conservatrici o liberali, che utilizzarono proprio le pesanti accuse di corruzione e di incapacità delle sinistre al governo per conquistare Argentina, Perù e molti altri paesi, fino alle vittorie strategiche del 2018: Brasile e di nuovo in Colombia. Nel frattempo il Venezuela restava il punto di crisi della situazione americana. I Castro controllarono la successione di Chavez dopo la sua morte, avevano voluto l’oscuro Maduro al potere, lo sostennero nonostante i tentativi disperati dell’opposizione e di buona parte della popolazione venezuelana, ridotta alla fame, di liberarsi della dittatura (oramai al centro di anche di importanti reti del terrorismo e del narco traffico).

Le forze liberali e conservatrici, guidate ora dai presidenti Bolsonaro e Duque, spalleggiati dagli USA, diedero vita al gruppo di Lima per isolare la dittatura venezuelana, favorire un pacifico cambio di regime a Caracas, cambiare il quadro politico del continente. La partita decisiva si giocò a febbraio. Il gruppo di Lima e l’opposizione venezuelana scatenano una campagna di mobilitazione e propaganda per ottenere le dimissioni di Maduro, ma fecero i conti con la determinazione del dittatore e dei cubani. I paramilitari al servizio del regime sparano sugli aiuti che cercano di entrare in Venezuela, mentre centinaia e migliaia di esponenti dell’opposizione sono arrestati o uccisi.

La determinazione dei castro-chavisti ad usare ogni forma di violenza per controllare i regimi fece il paio con l’incapacità degli avversari di decidere l’uso della forza. La dittatura di Maduro resisté così indisturbata, consentendo un nuovo cambiamento dello scenario politico, favorita dall’elezione di un presidente di sinistra radicale in Mexico, che a sua volta iniziò una battaglia poderosa contro l’opposizione (per ora però fallendo sul terreno dell’economia e nella lotta ai narcos). Proprio in Messico inizia la controffensiva del frontismo latino. A luglio nasce il gruppo di Puebla, una trentina di alleati della sinistra radicale, con tre obiettivi espliciti: difendere il regime di Maduro, mettere in crisi il gruppo di Lima, riconquistare il potere dove possibile. L’irrazionalità della politica di Trump e le difficoltà strategiche di Russia e Cina facilitarono questo scenario. I cubani lasciarono in primo piano alcuni attori minori, ma sono tra i veri registi della partita.

L’offensiva si scatena negli ultimi due mesi, con risultati alterni. In Argentina il conservatore Macry non è riuscito a mantenere la promessa di tirare fuori il paese dal disastro economico e corruttivo del kirchnerismo, viene travolto dalla rimonta del peronismo. Invece, sia in Ecuador che in Cile i presidenti Moreno e Pinera riescono a resistere alle ondate di proteste, dove ai manifestanti si aggiungono gruppi e amici del gruppo di Puebla con il chiaro obiettivo di far saltare i governi. Infine, in Bolivia Morales respinge qualsiasi tentativo di democratizzare realmente il paese. Eppure, ancora una volta, il Venezuela è il vero terreno di lotta. Nonostante sia diventato il secondo al mondo per rifugiati ed esuli politici, per non parlare della fame e della violenza che marca il paese, Maduro resiste spalleggiato dalle sinistre marxiste latine e dagli autocrati di tutto il mondo.

Lo scontro che sta opponendo il gruppo di Lima al gruppo di Puebla è sulla questione venezuelana, ma ha dimensioni continentali e valore globale. L’America Latina è terreno di battaglia tra il liberalismo presidenziale e il populismo autocratico-socialisteggiante, lasciando per sempre alle spalle i sogni di normalizzazione degli anni Novanta. Ed è un terreno di verifica delle narrazioni nell’epoca di media e social ben più potenti delle armi. Se le democrazie mondiali si sono schierate contro la dittatura venezuelana, il castro-chavismo ottiene la copertura delle autocrazie asiatiche e del mondo della sinistra salottiera o protestaria occidentali. Questi proiettano nell’America Latina i miti su cui legittimano la propria esistenza: neo-pacifismo, post-terzomondismo, presunta lotta ad imperi inesistenti, legittimando dittatori e loro amici. Invece, le forze liberali sono ancora poco impegnate e spesso distratte, ma sono di fronte ad una delle grandi sfide del secolo di cui dovranno tenere conto.

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