Lo spazio riveste un ruolo essenziale nelle operazioni militari di ogni Paese, per il contributo diretto alle operazioni e perché le reti di comunicazione satellitare e i dati raccolti da satellite costituiscono una componente essenziale del cyber-spazio. Per questa ragione, in caso di conflitto, le infrastrutture spaziali, a terra e in orbita, rappresentano un bersaglio potenzialmente appetibile per un avversario anche tecnologicamente meno avanzato e quindi interessato a ridurre il divario.
Lo spettro delle potenziali minacce è piuttosto variegato. A un estremo si collocano armi antisatellite (Asat), già sperimentate con successo da Cina, Russia e India e, in ambito Nato, solo dagli Stati Uniti. Tuttavia, dal momento che un missile in grado di colpire un satellite in orbita bassa richiede una tecnologia analoga a quella di un missile intercontinentale, tale capacità è ancora appannaggio di pochi Stati. All’altro estremo dello spettro si situano gli attacchi cyber.
La tipologia di questi attacchi a sistemi spaziali varia dal disturbo geograficamente localizzato di un segnale satellitare, per esempio il Gps, all’interferire nelle comunicazioni di un satellite, fino all’ipotesi (remota, considerati i livelli di protezione messi in atto) di alterazione dei comandi di un satellite. Inoltre, gli attacchi cyber presentano una barriera di ingresso, per lo meno in termini di costi e hardware necessari, decisamente più bassa rispetto a un Asat, e quindi costituisce un’opzione più praticabile per un numero più ampio di attori, possibilmente anche non statuali. Un attacco cyber, almeno in teoria, potrebbe inoltre consentire l’anonimato. A tal proposito, un rapporto recente della Chatam House sottolinea la necessità di approfondire lo studio dei rischi che la cyber-security rappresenta per le infrastrutture spaziali della Nato. Per effetto dello sviluppo delle tecnologie spaziali e della connessione tra spazio e cyber-spazio, si sta dunque assistendo a una evoluzione degli affari militari in cui le operazioni non sono solo condotte “dallo” spazio, ma anche “nello” spazio, il quale tende ad assurgere a rango di dominio operativo al pari di terra, aria, mare e cyber.
Il binomio di dipendenza e vulnerabilità intrinseco nello spazio non può più essere trascurato dagli analisti militari ed è per questo che il segretario generale della Nato, evidenziando l’approvazione della prima Space Policy dell’Alleanza Atlantica lo scorso giugno, ha affermato: “We can play an important role as a forum to share information, increase interoperability, and ensure that our missions and operations can call on the support they need”. Non deve dunque sorprendere la decisione della presidenza americana di istituire una Space force autonoma. Non si è una decisione estemporanea, ma piuttosto una mossa che si situa nell’alveo di un dibattito di lunga data all’interno dell’establishment americano.
Già nel 1998 una commissione ad hoc, presieduta dal segretario della Difesa Donald Rumsfled, concluse che lo spazio sarebbe certamente diventato un teatro di conflitto armato e che avrebbe necessitato di un approccio unificato e autonomo. Ora quel tempo è arrivato, e gli Stati Uniti non hanno indugiato. Agli altri Paesi e alla Nato il compito di declinare la propria postura a salvaguardia di interessi, nazionali e di coalizione, e al fine di non farsi trovare impreparati in situazioni di crisi improvvisa, come potrebbe essere l’invocazione dell’articolo 5 del Trattato nord atlantico per un attacco a un’infrastruttura spaziale.