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Dalle prime proteste al Politecnico occupato. Le ragioni di Hong Kong

Di Jean-Pierre Cabestan

È noto che l’elemento scatenante nella crisi di Hong Kong agli inizi di giugno 2019 sia stato il disegno di legge sull’estradizione. Questo avrebbe dovuto facilitare l’estradizione di criminali fra Hong Kong e la Cina propria ed è stato considerato da molti come uno strumento usato dalla Cina per esercitare un maggior controllo sui dissidenti. Ma ciò è vero solo in parte. La proposta di legge venne infatti ideata e proposta dalla stessa Carrie Lam, chief executive di Hong Kong, a seguito di un crimine avvenuto nel 2018 a Taiwan, dove un cittadino di Hong Kong macchiatosi di omicidio era poi tornato in città. A seguito delle pressioni della famiglia della vittima affinché il colpevole venisse giudicato a Taiwan, Carrie Lam ha ideato la legge in questione, che avrebbe facilitato l’estradizione di criminali fra Hong Kong, la Cina, Taiwan e Macao.

Apparve subito chiaro che la Cina avrebbe tratto giovamento da questa nuova legge, in quanto avrebbe potuto ottenere l’estradizione dei criminali piuttosto che proseguire con i rapimenti, come avvenuto nel caso dei librai e degli editori nel 2015. L’allarme venne lanciato soprattutto da due categorie di cittadini di Hong Kong. La comunità imprenditoriale, molto preoccupata dell’eventuale incremento dell’influenza cinese e della sua poco liberale gestione delle attività economiche e gli attivisti, in particolare cinesi residenti a Hong Kong, che temevano un maggior controllo di Pechino su di loro, oltre all’eventualità di essere giudicati secondo le leggi del diritto cinese.

Le ragioni alla base del malcontento generale nei confronti della Cina sono però più profonde e non si limitano alla sola legge sull’estradizione, la quale è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La mancata previsione di questo fu un gigantesco errore da parte di Carrie Lam. Queste motivazioni possono essere sintetizzate in tre elementi.

Il primo, e più importante, risiede nella frustrazione derivante dalla sempre maggiore interferenza di Pechino negli affari di Hong Kong. La Cina riveste infatti un ruolo quasi di governo-ombra rispetto alle autorità cittadine. I membri del comitato elettorale, incaricati dell’elezione del chief executive, seguono infatti, per la maggior parte, le istruzioni del governo cinese. Lo stesso accade a livello parlamentare, dove Pechino controlla di fatto la maggioranza. Tutto ciò ha già portato a eventi che hanno alimentato sempre di più la rabbia nei confronti della Cina, come la Rivoluzione degli ombrelli nel 2014, il rapimento degli editori e dei librai l’anno seguente e la messa al bando dell’Hong Kong national party nel settembre 2018.

In secondo luogo, vi sono ragioni di tipo sociale. I giovani hanno infatti difficoltà a trovare un lavoro ben pagato, vista anche la crescente immigrazione di cinesi a Hong Kong che vanno a occupare i posti migliori nel settore bancario e finanziario.

Infine, vi sono contrasti di tipo culturale. Gli abitanti di Hong Kong, di cultura cinese cantonese, hanno sempre rappresentato un elemento di resistenza nei confronti dei cinesi settentrionali e sono tradizionalmente più aperti al mondo esterno rispetto ai cinesi dell’entroterra.

Tutte queste ragioni spiegano perché, anche a seguito dell’annuncio della sospensione, e poi del ritiro, del disegno di legge sull’estradizione, il movimento di protesta non si sia fermato. Carrie Lam, infatti, a seguito della prima manifestazione violenta del 12 giugno, aveva già immediatamente reso pubblica la decisione di sospendere il disegno di legge, ma i cittadini di Hong Kong hanno continuato a manifestare e il 4 settembre hanno ottenuto l’annuncio del futuro ritiro della legge dopo mesi di scontri. Il fatto che il governo di Hong Kong abbia concesso qualcosa in queste due occasioni, sempre in seguito a scontri violenti, ha portato però i manifestanti a supporre che la violenza sia lo strumento più efficace da adottare. A causa anche di questo errore di Carrie Lam, il movimento di protesta è oggi ancora lontano dal dirsi concluso.

È difficile dire quali effetti di lungo periodo porterà questo scontro. Non appare però probabile uno stravolgimento degli attuali rapporti politici fra la Cina e Hong Kong, esplicati dalla formula One country, two systems. Una formula da cui il governo cinese trae molti vantaggi, data la sua ambiguità. Pechino ha infatti molti modi per controllare la città senza impegnarsi direttamente.Un esempio di questo atteggiamento della Cina fu rappresentato dalle riforme proposte nel 2014, non applicate, che avrebbero consentito l’elezione del chief executive tramite suffragio universale, ma solo a seguito dell’approvazione cinese dei candidati.

La crisi a cui assistiamo a Hong Kong è dunque da considerarsi uno scontro fra comunità politicamente e culturalmente opposte. I cittadini di Hong Kong vivono in un ambiente liberale, godono di libertà civili e hanno libero accesso a Internet. L’esatto contrario della Cina, dove la popolazione non spinge per una democratizzazione. Le persone credono nel partito, nella crescita economica e nella stabilità. Dati questi elementi, appare chiaro quanto la contrapposizione fra Cina e Hong Kong sia profonda, e che non potrà esaurirsi solo con l’annunciato ritiro di una singola controversa legge.

(Testo tradotto da Francesco Felle)

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