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Ilva, i privati hanno fallito. Perché lo Stato dovrebbe fare meglio? L’analisi di Amenta (Ibl)

Di Carlo Amenta

La crisi in cui si trova l’ex Ilva, il complesso siderurgico gestito da Arcelor Mittal ormai prossima al disimpegno, ha diverse cause non tutte figlie di teorie del complotto sui cattivissimi indiani speculatori e sulle multinazionali aguzzine che danneggiano la gloriosa nazione italica. La crisi del settore siderurgico mondiale, gli interventi della magistratura a volte contraddittori e spesso poco attenti alle dinamiche d’impresa, l’atteggiamento ondivago del governo nazionale rispetto agli impegni presi, sono fattori rilevanti ma non unici.

Se non è facile individuare le cause, figuratevi quanto possa esserlo trovare una via d’uscita sensata. Stretti tra la salvaguardia della vocazione industriale e la tutela della salute pubblica non ci resta che assistere, sgomenti, ad una ridda di proposte che sono tanto fantasiose quanto poco efficaci. Il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, in un impeto di nostalgia causato dal trentennale del crollo dei regimi comunisti e socialisti occidentali, ha proposto il ritorno alle nazionalizzazioni, resuscitando l’Istituto di ricostruzione industriale e ricordando l’importanza della difesa della produzione industriale autarchica e dell’interesse strategico nazionale. La soluzione, quantomeno impervia in base alle norme europee, dovrebbe far sorridere se si riflette sulla incapacità che i governi nazionali mostrano nell’amministrare anche gli affari di natura pubblica.

L’idea che lo stato possa fare meglio di quanto fanno i privati sembra però diffondersi, come un virus, un po’ in tutti i paesi occidentali. In Uk il laburista Corbyn ha già dichiarato che vuole nazionalizzare le utilities mentre, negli Stati Uniti, Elizabeth Warren, candidato democratico nella corsa alla Casa Bianca, vuole riformare il capitalismo sottoponendo l’attività delle grandi imprese all’ottenimento di una concessione.

La nazionalizzazione delle imprese non è mai una buona soluzione. Lo stesso Stiglitz, un economista di certo non neoliberista, ammoniva che il soggetto pubblico ha una responsabilità fiduciaria nei confronti dei propri cittadini, conseguenza dell’appartenenza universale e del potere coercitivo che può esercitare: diventa quindi difficile per lo Stato adottare criteri di efficienza che consentono le ristrutturazioni necessarie nei casi di crisi. I soggetti privati gestiscono risorse e competenze da combinare per creare valore aggiunto, necessario a conoscere la domanda e ottenere un profitto; quando non ci riescono, il meccanismo di mercato le costringe alla chiusura e sorgono nuove iniziative anche diverse, in un gioco che vede vincitori e vinti ma, almeno a giudicare dalla crescita economica dell’ultimo secolo e mezzo non è mai a somma zero.

Pochi si chiedono se l’ex Ilva possa continuare davvero a creare profitto e l’imperativo resta “salvare la vocazione industriale del paese”. Se questo si deve fare a spese dei contribuenti allora davvero meglio lasciar perdere e creare le condizioni perché il mercato possa selezionare nuovi vincitori. Quasi tutti i politici sono a favore delle nazionalizzazioni: ottengono più potere e più voti, gestendo spesso a favore dei lavoratori e contro le esigenze dell’impresa. A Patuanelli posso solo ricordare la frase che Winston Churchill avrebbe rivolto al laburista Attlee mentre si allontanava da lui, reo di essersi accostato agli urinali del bagno della House of Commons, mentre lo stesso Churchill li stava utilizzando: “quando vedi qualcosa di grosso vuoi sempre nazionalizzarlo”. Il contesto era ben diverso ma per i politici di ogni colore questa frase resta sempre di valore assoluto.

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