Skip to main content

La conversione al capitalismo. 1989: l’ultima frontiera del libero mercato

di Fiamma Nirenstein, inviata a Berlino

Dal sogno infranto del socialismo reale alla scoperta della poesia delle merci. Dalla fuga disperata all’approdo famelico. Dalla rabbia alla voglia. Cronache dalla nuova frontiera: ovvero la tumultuosa conversione al capitalismo di uno dei popoli ex comunisti liberati dall’effetto Gorbaciov.

Noi, gente dell’ Occidente, non avevamo mai visto un bambino che per la prima volta a dieci anni entra in un grande magazzino pieno di giocattoli (in questo caso il Ke De We di Berlino ovest) e tocca un videogioco Nintendo. Non avevamo mai visto una massa di pensionati e di donne vestite con cappotti grigi di lana a piccoli bitorzoli aggirarsi per un negozio di dolci dove sono esposte cento marche di cioccolatini, duecento di caramelle di tutti i colori, una quantità indefinita di pasticcini profumati mai visti prima.

Non avevamo mai visto una massa di ragazzi tutti vestiti di un triste jeans marmorizzato, eguale per tutti e palesemente divisa della festa giovanile, aggirarsi per un grande negozio di articoli musicali, chiedere di mettere un compact (mai visto prima) di Madonna (Papa, don’t preach, che è per noi già vecchiotta) e azionare un sintetizzatore che al tocco di un bottone riproduce l’abilità di un esperto batterista. Non avevamo mai visto che faccia fa un tecnico specializzato o un professore di letteratura che ha speso trent’anni di lavoro, mettiamo, nel paesino di Bebra o a Ehrefurt, quando si aggira fra mille qualità di shampoo o di sapone, e decide di comprare delle mollettine colorate per i capelli della figlia.

Non avendolo mai visto prima, per quanto sforzo teorico possiamo aver fatto, non abbiamo capito molto della rivoluzione che Gorbaciov ha portato nella vita delle popolazioni dell’Europa orientale, e adesso che le frontiere tedesche si sono aperte, anche nella vita di noi europei. L’assalto di immense moltitudini alla democrazia, che non sappiamo dove porterà, ha assunto nel contatto diretto e massivo fra gli abitanti dell’Est e noi che stiamo da questa parte, una dimensione fattuale e anche famelica, che si è, per così dire, concretizzata in una specie di contatto mistico con la merce. La nostra merce, la merce della democrazia.

“Qualunque bene economico mobile in quanto è oggetto di commercio” : così definisce il vocabolario la parola merce. Ma mai definizione più esigua, meno adeguata al valore simbolico degli oggetti con cui per la prima volta la gente dell’Est, e soprattutto i tedeschi sono venuti in contatto in questi giorni. Mangiare quella pralina, indossare quel cerchietto per i capelli, equivale a mangiare, a indossare, un pezzo di democrazia occidentale.

“Dio mio, come sono materialisti” , dice in modo molto diretto un giovane biondo che in divisa punk guida un taxi. “Lo sa che giovedì, quando sono passati per la prima volta, dopo tre ore in città non si trovava più una banana?” . Bestemmia un po’ e ride per il grande traffico di Trabant, dette trabi, le macchinette paleolitiche che, tutte fatte di plastica e funzionanti a due pistoni, e quindi a miscela, hanno invaso la città. Sono color pistacchio, rosa, celesti, gialline. Dentro, i tedeschi orientali hanno stipato anche le nonne, i gatti, i nipoti.

Ogni adulto, all’ingresso, riceve i famosi cento marchi di benvenuto, che sono poco più di settantamila lire. “Qualcuno che ha due passaporti riesce a farseli dare due volte” , dice lo scettico tassista punk, “comunque, poveretti, buon per loro se ci riescono. Ora cominceranno un po’ di problemi: case, lavori pendolari, traffico. Berlino cambierà faccia” . Dei due milioni di visitatori entusiasti e sconvolti che si sono precipitati all’Ovest a partire dal 9 novembre, data in cui Krenz ha aperto i varchi e la gente ha cominciato a picconare il muro e a portarsene dei pezzettini a casa come souvenir, a Berlino ne sono rimasti pochi: un po’ meno di cinquemila.

Il centro maggiore di raccolta, sorvegliato con puntiglio dagli eserciti alleati che ancora sono i tutori di Berlino, è quello di Marienfeld, dove mille persone sono in attesa di destinazione definitiva. Alla Messehallen, nella zona della Funkturm, in un capannone tutto bianco diviso in box senza tetto (tutti i box sono dentro lo stanzone) sono stati approntati circa duecento nuovi letti dalla Croce Rossa, ma per ora una parte è vuota. Nello stanzone hanno spazio per rincorrersi i bambini, e per giocare con le macchine telecomandate che non avevano mai toccato prima.

A Berlino, ora che si può passare da una parte e dall’ altra, non ha molto senso restare: si può tornarsene a dormire a casa propria, dai propri parenti, andando ad acquistare cibo e vestiti all’Ovest. Per un domani, semmai, si possono cominciare a fare progetti per un pendolarismo classico: lavorare nel Paese ricco, portare lo stipendio a casa, fra i poveri, e arricchirsi col dislivello del valore del marco e con le ore di lavoro in più. Gli adulti di Berlino est ragionano così, fanno progetti, e per ora tornano a casa. Chi si è fermato nei giorni del grande passaggio a Ovest sono i ragazzi: “Non sono mai stato in una videodiscoteca” , racconta come spiegazione della sua scelta uno di loro, di professione becchino (”qualcuno lo deve pur fare” , dice con l’ orecchino che spicca di più sulla guancia diventata rossa).

L’orecchino e il jeans marmorizzato sono d’ obbligo per il gruppo di immigrati-bambini. Non c’ è nessuno che non abbia l’orecchio bucato. A Berlino non sarà tutto facile per i nuovi arrivati. La città dopotutto è una città chiusa, con una pesante crisi di abitabilità. Il contatto è troppo serrato per essere facile: quelli dell’ Est sono già diventati nel linguaggio comune, gli “zonisch” , quelli che vengono dalla zona.

I cento marchi da spendere finiranno prestissimo, e dopo sarà l’ Occidente a dover foraggiare la nuova fame di acquisti. Per ora delle Trabant si sorride, fra poco i “trabi” diventeranno oggetto di fastidio, piccoli dinosauri puzzolenti in mezzo al traffico delle Mercedes. Le facce da operai, la lingua arcaica, paleotedesca, costituiranno una dura prova per la germanicità.

“Confederazione, sì, va bene, ma di riunificazione” , dicono gli intellettuali e i giovani democratici dell’ Ovest, “francamente non se ne sente il bisogno. Possiamo vivere così come stiamo. Dopotutto la Germania è stata un unico Stato molto brevemente, col pugno di Bismarck, e per nemmeno cinquant’ anni” .

Ma i berlinesi sono un caso particolare: la cultura del muro, il maledettismo postmoderno della loro storia di cenere e cemento, ne fa dei tedeschi del tutto particolari. Nel resto della Germania dove attraverso le frontiere ungheresi, polacche, ceche si sono riversati nelle ultime settimane centocinquantamila abitanti della Germania est, si svolge la vera migrazione di popolo, con le carrozzine piene di pentole e di coperte, con i soldi nascosti nella biancheria intima, con alle spalle anni di disperata tensione verso la meta agognata: la società libera, la patria tedesca del capitalismo.

A Giessen, vicino a Francoforte, in una delle zone più industriali della Germania, si trova il più grande fra i molti centri di raccolta di profughi tedeschi. Eccolo, il Bundesaufnahmestelle, diretto dal 1971 da Heinz Dörr, un gentile signore che viene comunemente chiamato “capo del lager” . Davanti al “lager” la fila è lunga, ed è una fila che si forma giorno e notte davanti alla baracca di accettazione, senza tregua. La gente arriva da tutte le parti come materializzandosi dall’aria.

Famiglie intere, vecchie e vecchi, eserciti di bambini e la solita vasta schiera di giovani in jeans marmorizzati, battono i denti dal freddo mentre aspettano di essere accettati: tutto quello che viene richiesto è la dimostrazione di cittadinanza tedesca, e subito ricevono quindici marchi e i buoni pasto, cui seguiranno dopo breve tempo i cento marchi di benvenuto. “Restano nel lager” , spiega herr Dörr, “due o al massimo tre giorni. Qui li sistemiamo un po’ alla meglio, specie nelle ultime settimane, in cui c’ è stato un afflusso abnorme. I ragazzi dormono in camerate anche di sei letti, le famiglie vengono inviate in altri lager provvisori che abbiamo approntato in questi giorni: alcuni padiglioni dell’ospedale, le caserme, villaggi vicini, alberghi.

Tutto è pagato dallo Stato, con l’ aiuto di alcune associazioni. Vengono subito ricevuti da un ufficio di collocamento organizzato dentro il campo, e esprimono le loro preferenze circa la zona di abitazione e il lavoro che vogliono svolgere. Cerchiamo di accontentarli per quanto possiamo, anche se adesso è un po’ più difficile. C’è una determinata chiave di accettazione fissata dal governo federale a seconda delle capacità economiche delle zone: la Westfalia del nord ne prende il 37 per cento, nel Baden Wurttenberg ci va il 25 per cento, in Baviera il 20 per cento, nella nostra regione che è quella di Hessen, circa il 9 per cento.

Non appena giungono nel luogo di destinazione, per noi diventano tedeschi uguali a tutti gli altri: chi è disoccupato ha diritto al sussidio di disoccupazione. Chi è pensionato, alla pensione” . La folla del lager è una folla felice, o almeno molto convinta di ciò che ha fatto: incontriamo operai, casalinghe, e sempre la folla di ragazzini che è scappata di casa senza dirlo alla mamma, senza una lacrima o un rimpianto.

I ragazzini vanno a coppie, si abbracciano e si baciano in continuazione; tutti quanti, per fuggire, fino all’ apertura della frontiera, avevano scovato marchingegni diversi, e complicati, molti hanno conosciuto la galera e le botte.

Frank Adler di 26 anni, tre volte ci aveva provato, tre volte lo avevano preso. Thomas Nuszbaumm, che come lui è un tecnico d’ industria, ha passato diciassette mesi in carcere. Alla fine, alla frontiera di Gerstung, un maggiore dell’ esercito della Ddr gli ha suggerito di infilarsi nei vagoni di coda di un treno su cui il controllo era già passato: “A casa ci avevano detto che i cittadini della Rft ci avrebbero considerato con odio. Invece aprono persino il portafoglio, e ci sorridono come a dei fratelli. Il primo impatto con i negozi è stato terribile. Abbiamo visto nelle vetrine una tale quantità di cose che abbiamo pensato: ci hanno imbrogliato per tutta la vita, ci hanno turlupinato” .

Nuszbaumm dice che la cosa che lo ha più colpito sono i giocattoli; Adler ha visto una giacca di pelle. La videoteca è una cosa che ha colpito tutti e due allo stesso modo. “Non ho paura di lavorare di più. So che qui nel capitalismo il lavoro è duro. Ma dove lavoravo ero uno dei migliori. Ci so fare con l’elettricità, con i motori diesel, ho la licenza per pilotare gru e autotrasporti. Ci hanno offerto già alcuni lavori. Stiamo valutando la situazione”.

Sugli alberi che orlano la strada che porta al centro di raccolta, pendono, svolazzando, centinaia di offerte di lavoro: “A Stoccarda cerchiamo fabbri, a richiesta forniamo anche l’alloggio”. “Chi vuole vivere a Francoforte? Cerchiamo costruttori di riscaldamenti con patente di guida. Alloggio a disposizione. Siamo in dodici soci, se vi unirete a noi ci farete piacere! Telefonate allo 06109-3885″ . “Cerco infermiera a Stoccarda” . “Studio di medicina e radiologia cerca un medico a Bremerhaven. 04743-493″ . “Cerco partner per la danza professionale”.

Non è solo la prima impressione: effettivamente per i tedeschi appena arrivati, la situazione è del tutto diversa da quella degli altri immigrati, dei turchi e degli italiani. Sono dei tedeschi tornati a casa, e sono giusti (a detta degli uffici di collocamento e dei ministeri competenti, che magari forzano un po’ la mano per motivi politici) per il mercato tedesco.

Intanto, all’ufficio di collocamento nazionale, li chiamano in modo diverso dagli altri disoccupati: i tedeschi orientali sono “arbeitsloser übersiedler”, disoccupati in via di spostamento o di trasloco, mentre un turco è un “arbeitsloser ausländer”, straniero. I disoccupati Ddr sono il 3,3 per cento di tutti i disoccupati. Se si prende la zona di Francoforte, dove la percentuale è identica, l’offerta di lavoro tedesco-orientale è soprattutto di manodopera specializzata: alla fine di settembre c’erano 98 fra fabbri e meccanici cui trovare lavoro, 78 ingegneri chimici e fisici matematici, 39 autisti e autotrasportatori, 132 impiegati amministrativi, 50 fra pedagogisti e laureati in lettere e storia dell’ arte.

“Non ho motivo di dubitare“, dice Michael Shott, dell’ufficio di collocamento di Francoforte, “che siano già stati tutti collocati, o che troveranno da fare molto rapidamente. L’ unico problema è quello di addestrarli all’uso dei computer. Stiamo già aprendo dei corsi, ai quali si iscrivono molte donne” . Le donne, quelle che hanno fatto le file per comprare l’ennesima scatola di sgombri sott’olio, sono le più determinate, le più eccitate, le più allegre: si sono vestite, per la fuga, con il loro migliore abbigliamento.

Eva Marie Assmann di 46 anni, bruna e graziosa, ha un golf tutto verde e d’ argento; Ute Kock, bionda, stessa età, indossa una collanina e un golf viola. Hanno lasciato a casa le figlie e i nipotini di pochi mesi, le accompagnano i mariti e il genero di Eva Marie. Cosa vorrebbero comprare di quello che hanno visto: “Alles! Tutto! Ma soprattutto la frutta, che in Germania est è destinata solo ai burocrati di partito, i veri capitalisti.

Per comprare le arance avevamo un buono una volta al mese. I bambini piccoli non hanno i pannolini. La verdura è solo una: cavolo! Il pesce solo uno: sgombri! Qui il cibo ti fa venire l’acquolina in bocca: le banane, la cioccolata qui costa un decimo dei 10 marchi che costa da noi; e quanta ce n’è, quante qualità! Abbiamo visto per la prima volta i pistacchi, e certe nocelle di cui non sappiamo neanche il nome, sì, forse dei pinoli, ma chi lo sa.

Da noi come genere di conforto trovi solo alcool, alcool per ubriacarti la sera. Qui, poi, è tutto pulito, da noi le case cadono a pezzi, la spazzatura è dappertutto, l’inquinamento è incontrollato… L’automobile! Vogliamo un’automobile. L’abbiamo chiesta diciassette anni fa, e ancora non ce l’hanno assegnata. Vogliamo fare le vacanze! Da noi si deve fare richiesta ogni estate, e te le danno ogni quattro anni. I padroni del vapore invece viaggiano tutti gli anni, quanto vogliono.

I padroni del vapore stanno con le mani in mano, per tre operai ci sono tre dirigenti che all’ora del pranzo tirano fuori una scatola di pesche sciroppate e se la mangiano sotto i tuoi occhi, e tu sai che quella roba costa 9 marchi. Una giacca o un buon paio di scarpe costano altrettanto”. Ute aggiunge che suo padre è rimasto un vero comunista, ma che al momento della partenza le ha detto: “Vai, fai la tua vita, noi ormai la nostra l’abbiamo spesa così”.

La spinta dei generi primi non è affatto maggiore di quella della moda: l’ elenco delle fascinazioni e dei bisogni dei ragazzi che incontriamo nella succursale del lager situata all’ospedale municipale, è altrettanto urgente e drammatica. La snocciolano ragazzini che per fuggire hanno piantato nottetempo la famiglia, senza dire niente, e hanno attraversato a nuoto il fiume Neisse, passando così in Polonia, da dove hanno spiccato la fuga definitiva.

Due coppiette di Ehrefurt, due ragazze di diciassette anni, Katherine Hattmann e Daniela Kneiszel, e due ragazzi di venti anni, Timo Schundt e Thomas Elnner, sanno esattamente cosa rimpiangeranno: il giornale Das Volk, su cui trovavano l’ elenco delle discoteche ambulanti che nel fine settimana aprono i battenti in qualche trattoria di paese, con altoparlanti d’ accatto e dischi vecchi. E che altro rimpiangono? Forse la mamma, che prima o poi avvertiranno, in qualche modo, di dove si trovano e di che cosa fanno: “Tanto i genitori se lo immaginano che siamo passati all’Ovest”.

Desiderano sopra ogni cosa visitare una videodiscoteca, e ammassati come sono in una stanza strabordante di cuccette, privi di abiti e di danaro, sognano di comprarsi le kickers colorate come quelle dei loro coetanei americani o europei occidentali. “Chincaglieria come quella di Madonna”, vuole Katherine che porta una sciarpetta dorata al collo diafano e sottile. Con odio ricorda il motto: “Seid bereit, immer bereit“, siate pronti sempre pronti, lo slogan idiota che le ripetevano i capi delle organizzazioni di bambinetti comunisti.

Thomas, il suo maggiore odio lo riserva invece a quelli che gli recitavano, a scuola, che la Ddr è per la pace insieme al blocco dell’Est mentre tutti gli altri vogliono la guerra. “Figurarsi! In un Paese dove fai esercitazioni militari da quando cominci a camminare“.

Fanno tutti mestieri ben utilizzabili: Katherine e Daniela sono ambedue allevatrici di animali, i due ragazzi sono l’uno marmista e l’altro operaio specializzato. Desiderano “una casa pulita come quella che vediamo in giro. Mobili per arredarla: cucina moderna, divano, televisione a colori (in Ddr c’è solo il bianco e nero), abbigliamento, viaggi, e poi l’automobile! Forse una Fiat”. Chiedo a Timo se desidera vivere in una Germania unita: “Certo che sì” , risponde, “non è mica colpa nostra quello che i nostri padri hanno fatto nel passato”.

Ecco, è la prima volta che sentiamo un riferimento al passato germanico, al passato che non passa, e allora vogliamo sapere da questo ragazzo a che cosa si riferisce esattamente. Parla del nazismo, infine? Parla della Seconda guerra mondiale? Si riferisce all’ Olocausto? “Niente affatto: intendo dire: non è mica colpa nostra se i nostri padri hanno costruito il muro”.

Dunque, oggi, il passato della Germania si ferma là. Laddove Gorbaciov ha fatto cadere il simbolo della divisione fra mondo comunista e mondo occidentale, dove scandendo il suo nome il popolo socialista ha decretato la fine di ogni velleità di competizione, o anche di comparazione, col mondo occidentale.

I capi franchi o germanici, quando i loro popoli, ai tempi della decadenza romana, premevano alla ricerca di nuovi spazi, nuove ricchezze, cibo e vesti, dalla cima delle Alpi indicavano le pianure italiche e le loro dovizie. Oggi esistono i trattati internazionali. Ma popoli immensi, e non solo i tedeschi, premono sulle spalle dell’Europa e dell’Occidente intero, guardandolo con desiderosi e innocenti occhi di bambino affamato. È destino che sia la Germania, fra tutti i Paesi quello più denso di storia d’ Europa, a fornire il primo terreno su cui si misura massicciamente l’apertura di Gorbaciov. Da qui, da questi giorni, la storia trarrà nuovi spunti per noi tutti.

Epoca, novembre 1989

 



×

Iscriviti alla newsletter