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Perché la Bce di Christine Lagarde è differente. Il commento del prof. Pennisi

Questa testata ha anticipato circa un mese fa che il cambio della guardia alla presidenza della Banca centrale europea (Bce) avrebbe significato una modifica in management style e anche forse in orientamento delle politiche dell’istituto. Non credo ci siano “pressioni sul nuovo presidente”, Christine Lagarde, e “tentazioni di ridurne i poteri”, come scritto in questi giorni su quotidiani del nostro Paese. Lo stile manageriale collegiale, prassi del Fondo monetario internazionale da dove Christine Lagarde proviene, comporta inevitabilmente maggior voce in capitolo per gli altri componenti dell’esecutivo e del Consiglio della Bce.

La nomina, poi, di Isabel Schnabel, economista di valore anche se spesso in disaccordo con Mario Draghi, nell’esecutivo Bce comporta inevitabilmente l’esigenza di dare maggiore ascolto di quanto fatto negli ultimi anni alle istanze della Germania Federale, che è comunque il maggior azionista della Bce. Ciò può anche voler dire, come ha fatto Christine Lagarde nelle prime due settimane del suo mandato, concedere interviste a testate tedesche più che a quelle di altri Paesi.

Non ci si sarebbe potuto aspettare in ogni caso grande attenzione, o un riguardo, per l’Italia, il cui governo – visto da Francoforte – è male assortito e litigioso e, soprattutto, non in grado di perseguire quella politica di sviluppo che a parole, sarebbe il suo obiettivo. Christine Lagarde è, senza dubbio, informata dell’ “aria che tira” a Roma dei casi Ilva, Alitalia, dei 158 “tavoli di crisi” e di una legge di Bilancio che comporta un aumento della pressione tributaria ed una crescita del debito pubblico per finanziare misure assistenziali. Pare che in conversazioni private Christine Lagarde abbia detto che è “esterrefatta” del “caso Italia”.

C’è soprattutto un mutamento oggettivo di agenda rispetto agli anni di Draghi. Allora il problema chiave era impedire che l’euro venisse spazzato via della crisi economica e finanziaria internazionale. Quindi l’adozione del whatever it takes ed il Quantitative Easing, adottato comunque quasi a rimorchio delle autorità americane. Nel lasciare l’incarico, lo stesso Draghi ha sottolineato i limiti delle politiche monetarie e l’esigenza di politiche di bilancio per gli Stati che, avendo fatto le necessarie riforme, ne hanno la capacità.

Oggi l’agenda è differente perché i rischi per l’unione monetaria non provengono da una crisi finanziaria (di cui si cominciano purtroppo a vedere i presupposti) ma dalla frammentazione finanziaria dell’area dell’euro. Lo ha analizzato acutamente Eric Dor dell’Università Cattolica di Lille in un saggio pubblicato in questi giorni.

La caratteristica principale sono le tendenze divergenti dei flussi finanziari spontanei tra i Paesi del centro e quelli della periferia dell’eurozona. I Paesi del centro sono caratterizzati da flussi netti in arrivo mentre quelli della periferia da deflussi netti in partenza. Ciò crea differenze profonde tra i sistemi bancari del centro e quelli della periferia. Le seconde sono eccessivamente appesantite da prestiti di bassa qualità. Altro aspetto è il differenziale dei tassi d’inflazione. In questo quadro, una politica monetaria eccessivamente “accomodante” è poco consona ai cittadini dei Paesi in cui il tasso d’inflazione è vicino all’obiettivo del 2% l’anno o anche lo supera. La Bce guidata da Christine Lagarde si dovrà chiedere se si può mantenere una politica monetaria uniforme in Paesi con tassi d’inflazione e politiche monetarie differenti, ove non divergenti.

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