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Il caso Mes e le inadempienze del governo. L’analisi di Pennisi

Formiche.net non è nuova la vertenza che causa problemi al governo: “il caso Mes” (sigla italiana di Meccanismo europeo di stabilità dell’European Stability Mechanism, più noto come “Fondo Salva Stati”).

Sia nel dicembre scorso (quando la riforma del Mes ha avuto una prima stesura) sia in giugno (quando è stata approvata dal Consiglio dei capi di Stato e di governo europei), abbiamo sollevato il problema e documentato che le riforme Mes danneggiano in particolare l’Italia.

È materia molto tecnica, ma la modifica del meccanismo di voto concede sostanzialmente il potere di veto a Francia e Germania e ci esclude dalla “stanza dei bottoni”. Soprattutto, le misure hanno tutto il sapore di essere “difensive”, o atte ad impedire la diffusione di un “contagio”, ove la situazione del debito pubblico italiano sfuggisse di mano.

Le due misure principali consistono nel rendere automatica una clausola di azione collettiva (ossia se uno Stato indebitato si accorda con un creditore per il prolungamento di una scadenza di un titolo, ciò vale per tutti i titoli e tutti i creditori) e nel varare due nuove forme di finanziamento a favore degli Stati dell’eurozona che rischiano instabilità a ragione del debito di un altro Stato dell’area dell’euro. Queste misure lasciano l’Italia, in caso di crisi del debito pubblico, indifesa e scoperta.

Questa testata ha illustrato le due misure, approvate nel dicembre 2018, prima che venissero confermate nel giugno 2019 da parte del Consiglio Europeo in giugno. Si attende il varo definito in dicembre. Non è chiaro se, trattandosi della modifica di un regolamento interno di un’istituzione internazionale nata per accordo intergovernativo ratificato dagli Stati membri, sia necessario tornare alle Camere (come sostiene un tardivo comunicato di Palazzo Chigi). Da quel che ricordo dei miei studi di diritto internazionale ed europeo, una volta varato dagli organi preposti, il regolamento è a tutti gli effetti in vigore.

Nel dicembre e nel giugno scorso, non siamo stati solo noi a sollevare la materia. Ne parlò diffusamente, ad esempio, Il Sole 24 Ore e Avvenire condusse una mini-campagna. L’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica, poi, pubblicò uno studio dettagliato. Poche settimane fa, il 14 ottobre, è stato tema di un convegno, organizzato, nei locali della Camera dall’Associazione Riformismo e Libertà. Nel corso del seminario, è stato sollevato come mai il ministro dell’Economia e delle Finanze dell’epoca non abbia fatto nulla (neanche riferirne in Parlamento) nonostante il problema fosse stato ampiamente segnalato dagli uffici del dicastero.

Sono state fatte tre ipotesi: o che, in tutt’altre faccende affaccendato, non avesse valutato la serietà della cosa; o che stesse negoziando “flessibilità” per il reddito di cittadinanza o simili, o che in giugno vista la mala parata del governo fosse alla ricerca, con l’aiuto del M5S, di qualche collocazione personale in una autorità od ente.

Oggi comunque non sta a lui fornire spiegazioni in Parlamento, ma al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

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