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Dal sovranismo al sistema globale. L’evoluzione dell’Europa dal 1989 a oggi secondo Zagari

Di Cristiano Zagari

Un giovane studente di Scienze Politiche sull’aliscafo partito dall’isola di Ventotene e diretto a Formia riconosce un’importante personalità di questi ultimi decenni e decide di farsi avanti chiedendo un’intervista. La personalità, reduce da due anni d’insegnamento universitario negli Stati Uniti, si rivela cordiale e disponibile. Per il giovane ricercatore l’occasione è propizia anche se il tempo gioca contro di lui dal momento che ha circa sessanta minuti per capire meglio cosa è successo negli ultimi trent’anni di storia mondiale dalla caduta del Muro ad oggi…

La vera geografia oggi non è più definita dai confini tra nazioni: i veri confini oggi sono quelli che all’interno degli stessi Stati dividono territori integrati al sistema globale e territori esclusi dallo stesso.

Riassumo per essere sicuro di aver ben capito. Per lei il limite del ragionamento sovranista è credere che i confini nazionali possano tener fuori gli effetti della globalizzazione, quando invece quest’ultima, oltre a travalicarli con facilità irrisoria ne traccia a sua volta altri ben
più definiti all’interno delle nazioni, all’interno delle regioni e addirittura all’interno delle stesse città.

Precisamente. Oggi il vero nemico per gli Stati nazione è il conflitto che si crea al loro interno per connettersi al modello di vita globale che altro non è che un’evoluzione 2.0 del vecchio modello di vita della classe media occidentale.

Perché conflitto?

Perché tutti conoscono tale modello, tutti ambiscono a tale modello ma non tutti ne usufruiscono. L’Italia in tal senso costituisce un interessante caso di scuola.

Per quale motivo?

La nostra è la nazione dell’Ue con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori (23% contro una media Uedel 30%). Sempre in Italia il 45% delle persone ritiene di avere le stesse opportunità degli altri di migliorare nella vita, mentre la media Ue si attesta al 58% e il quadro si fa ancora più cupo per i residenti al Sud di cui solo il 30% mostra ancora ottimismo. La stragrande maggioranza dei territori del Sud, malgrado una leggera ripresa a livello nazionale, continua a vivere processi socioeconomici regressivi dove il tasso di occupazione non riesce ad invertire il movimento verso il basso.

Cosa direbbe a quelle regioni italiane che in virtù dei loro buoni risultati a livello di export oggi chiedono di essere maggiormente sgravate fiscalmente pena l’impossibilità di rimanere agganciate alle leve di sviluppo europee e mondiali?

Risponderei che uno studente fuori sede che studia a Milano paga in media 540 euro al mese per una stanza…

Mi perdoni, ma cosa c’entra?

Quando si parla di unità nazionale bisogna tenere in conto tutti i parametri, non solo quelli che fanno comodo.

Per esempio?

Da una parte, prendiamo Milano: unica global city in Italia, un vero e proprio hub di successo a livello mondiale: grandi aziende italiane e multinazionali in grado di offrire impieghi ad alto valore e ben retribuiti, finanza innovativa con fondi private equity che finanziano crescita e innovazione aziendale, startup tecnologiche filiate dalle grandi aziende innovative, alti standard di sanità sia pubblica che privata, università di livello assoluto, filantropia manageriale potente ed efficace. Dall’altra, prendiamo in considerazione cosa significhi vivere oggi nella periferia del Paese, intesa come Sud ma non solo (piccoli centri urbani, comunità rurali, aree interne, isole): pochi servizi, pochissime opportunità di vita, di lavoro, di reddito ma soprattutto lontananza da scuole, stazioni, ed ospedali… In questi due scenari opposti c’è tutto il fallimento della teoria dello sgocciolamento, dal momento che è palese che dal “centro” alla “periferia” non vi sia stato nessun travaso di ricchezza, anzi…

Anzi?

I differenziali territoriali relativi ai dati provenienti dal sistema universitario italiano denotano una dinamica del tutto opposta da quella denunciata dalle regioni esportatrici. Uno studio edito da Svimez, stima, relativamente alla scelta da parte delle famiglie del Sud nell’inviare i loro figli a studiare negli atenei del Centro-Nord una fuoriuscita media di 3 miliardi di euro l’anno. Tale dato comprende l’investimento pubblico per formare i giovani del Sud residenti poi emigrati e le spese volte al loro mantenimento presso gli atenei di accoglienza (spese relative a rette universitarie, alloggio, vitto, trasporti, comunicazione, sanità ed energia consumata). In altre parole, oltre a vanificare i frutti di un investimento pubblico (istruzione primaria e secondaria) e ad impoverire economicamente le famiglie del Sud, questo stato di cose spolpa il Meridione del proprio capitale umano, dal momento che solo il 2% degli studenti meridionali che hanno studiato nel CentroNord fa poi ritorno a casa, contro il 93% che invece rimane a lavorare lì.

In altre parole, se ben capisco: uno stato nazione indebolito non risulterebbe in grado d’impedire la “cannibalizzazione” della periferia da parte del centro…

No, sto dicendo che chi si muove con disinvoltura tra argomentazioni in favore di autonomie e secessioni dovrebbe tenere in considerazione nel computo globale tutti i parametri.

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