Quanto durerà il governo? Qual è l’obiettivo di Renzi? Salvini vincerà tra due mesi anche in Emilia Romagna? Nell’intorno di tempo (59 giorni) che va dal 5 settembre, entrata in carica del Conte II, ad oggi, sembra che il piccolo mondo usato della politica nazionale stia facendo una specie di giravolta carpiata, “con una dannata voglia di fare un tuffo giù” (D. Modugno, Meraviglioso, RCA, 1968). Ma che succede?
È solo il respiro affannato di qualche attore in piena astinenza da apparizione televisiva, che adesso rischia però la letale overdose, oppure c’è qualcosa di più? Intanto ci sarebbe un canone condiviso dai nuovi sodali di governo che sembra essere la regola del conflitto: la cosa rara, infatti, in questa alleanza è la concordia, la difesa del deciso, la condivisione pubblica del programma, e gli ultimi fuochi sulla legge di stabilità lo dichiarano “plasticamente”.
Al confronto i vertici/caminetti/tavole rotonde di maggioranza tramandatici dalle magmatiche prime e seconde repubbliche sembrano delle agapi di anime sante ispirate da frati francescani e celebrate nella mistica della Basilica Inferiore. Insomma è come se la campagna elettorale fosse continua e, all’interno del racconto pro sé, ognuno si scegliesse un nemico su cui far convergere gli strali mediatici: Conte elegge Salvini e Renzi, Renzi sceglie Conte, Di Maio si conserva sul volto una eloquente sprezzatura contro tutti, non si sa mai. Sembra che a difendere il governo rimangano solo le altre file, la schiera dei ministri e sottosegretari che, se finisce, non si sa mica se si ritorna.
A ben vedere, però, il canone del Conte II è in tutto uguale al canone del Conte I, allora con Di Maio e Salvini in conflitto armato e ognuno promotore di obiettivi – vedi reddito di cittadinanza e quota cento – non necessariamente compatibili fra loro. È la Terza Repubblica, bellezza, e facciamocene una ragione. Com’è andata a finire con Salvini lo sappiamo. Come andrà a finire adesso, tra nomine (gli americani dicono che per capire le cose bisogna seguire la scia dei soldi, “follow the money”, noi diremmo “follow the appointments”, segui le nomine), elezioni regionali, referendum costituzionale e riorganizzazioni di movimenti e partiti, francamente non si capisce.
Ma c’è una cosa che si può capire subito e riguarda il Movimento Cinque Stelle. Continua a manifestarsi un approccio nei confronti di questo soggetto politico che è ancora vecchio e rischia sempre di cadere fuori bersaglio. Si prenda per esempio l’atteggiamento del Pd quando pone al M5S la questione di un’intesa strategica e duratura come si stesse rivolgendo, chessò, ai socialisti di De Martino (ci scusiamo per l’arcaica citazione con i lettori millennians). C’è dentro tutta l’inconsapevolezza del fatto di non trovarsi di fronte ad un interlocutore che possa somigliare in alcun modo ad una forma-partito di tipo tradizionale, ma di avere come partner di governo una “cosa” proteiforme e instabile, che per ragione sociale deve essere sintonizzata con l’umore del suo pubblico -dante causa.
Se il partito, nella sua accezione storica, è chiamato a svolgere nei confronti del popolo anche una funzione di “pedagogia democratica”, nel senso di rappresentare pienamente le sue istanze ma anche di proporsi come costruttore di obiettivi, consapevolezze, azioni coerenti poste nell’interesse collettivo, non sempre “consumabili” all’istante, il M5S non è nulla di tutto questo. Semplificando: se il partito si pone all’avanguardia del suo popolo, indicandone la strada, il M5S è il vagone che ne segue l’umore, quale che possa esserne il contenuto.
Se così stanno le cose, allora, bisogna cercare chiavi di letture diverse dal passato. Parlare di durevole alleanza tra partiti in questa stagione precaria è come entrare in un negozio di roba vintage e chiedere dell’i-Phone 11 di John Lennon. Un anacronismo.