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Trump, Xi e i patemi dell’Occidente su Hong Kong. L’analisi di Gramaglia

Ci ha pensato su cinque giorni, lui che in genere ha tempi di reazione di pochi secondi, e, alla fine, l’ha firmata, giusto in tempo prima che l’Unione entrasse nel lungo week-end familiar – soporifero del Ringraziamento. Lo ha fatto perché convinto che fosse la cosa giusta?, o lo ha fatto perché non aveva alternativa?, e l’attesa è stata spesa cercando di ammorbidire la prevedibile reazione negativa cinese?, che è puntualmente arrivata subito. Interrogativi per ora senza risposte certe.

Mercoledì sera, Donald Trump ha firmato la legge varata dal Congresso degli Stati Uniti che avalla e appoggia le proteste per la democrazia a Hong Kong, il cosiddetto Hong Kong Human Rights and Democracy Act, approvato la scorsa settimana con voti quasi unanimi dalla Camera e dal Senato – un esempio di politica estera bipartisan rarissimo nell’America polarizzata del presidente magnate e showman -.

Oltre a una verifica annuale sullo stato dell’autonomia e delle libertà di Hong Kong, il cui esito positivo è necessario per mantenere lo statuto di partner commerciale privilegiato, la nuova legge Usa prevede fra l’altro il divieto di vendita di lacrimogeni, proiettili di gomma e di tutto quanto possa essere utile alle forze di sicurezza locali per stroncare le massicce proteste.

In una dichiarazione all’atto della firma, Trump auspica che le autorità cinesi e di Hong Kong trovino una risposta alle richieste dei manifestanti che porti alla pace e alla prosperità comuni. Ma, prima della firma, il presidente aveva avuto atteggiamenti ambivalenti, per “stare con Hong Kong” ma “anche con il presidente Xi Jinping”. E s’era assunto il merito di avere evitato che l’ex colonia fosse “annientata in 14 minuti”: “Il presidente Xi ha un milione di soldati in postazione appena fuori Hong Kong. Non entrano solo perché l’ho chiesto io”.

Le esitazioni di Trump e le oscillazioni tra la piazza della ex colonia e le istituzioni cinesi riflettono le contraddizioni e i patemi di tutto l’Occidente di fronte a quanto sta avvenendo a Hong Kong: c’è l’anelito alla democrazia e l’urgenza del rispetto dei diritti umani, ma c’è pure il disagio per livelli di violenza insurrezionali; c’è la condanna della repressione, ma c’è il riflesso condizionato del “e se accadesse a casa nostra?”, tipo “gilets jaunes” sugli Champs Elysées; e c’è l’antitesi esplicitamente percepita tra valori e interessi, libertà d’espressione e democrazia contro scambi e investimenti.

Le reazioni non si sono fatte attendere: se c’è stato lavorio di preparazione diplomatico, non se ne avverte l’impatto. Mentre la polizia di Hong Kong conduce la bonifica del Politecnico, diventato una ridotta degli irriducibili della protesta, le autorità esprimono “rammarico” per la firma in calce alle misure a sostegno delle manifestazioni in corso da oltre 5 mesi nell’ex colonia britannica. Si legge in una nota che la nuova legge Usa manda “un segnale sbagliato” a chi scende in piazza, oltre a “interferire negli affari interni di Hong Kong” e ad “essere priva di fondamento”.

La Cina va oltre il “profondo rammarico”: dice che la firma mina la cooperazione fra Washington e Pechino “in aree importanti”, che la natura del provvedimento statunitense è “assolutamente abominevole” e cela “intenzioni minacciose”. Il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang ventila imprecisate “decise” contromisure, perché il Democracy Act rappresenta “un’interferenza negli affari interni cinesi” e “una violazione delle leggi internazionali”, con “uno sfacciato supporto ai criminali violenti”. E l’ambasciatore degli Usa in Cina Terry Branstad viene chiamato a rapporto per la seconda volta in 72 ore e viene spronato ad evitare danni “alle relazioni bilaterali”.

A soffrirne potrebbero essere in primo luogo la trattative commerciali tra Usa e Cina, cui sono appese le speranze di evitare un inasprimento della guerra dei dazi. Pechino fornirà “aggiornamenti sul negoziato con gli Usa al momento opportuno”, dice il portavoce del ministero del Commercio Gao Feng, in una conferenza stampa insolitamente breve, che più che a dare informazioni, vuole mandare segnali di minaccia. L’interscambio con Hong Kong ha dato agli Usa il maggiore surplus tra i suoi partner globali nell’ultimo decennio, “33 miliardi di dollari solo nel 2018”.

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