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Una ricetta (economica) contro il radicalismo? Il caso Tunisia

Di Francesco Anghelone

La transizione di un Paese da un sistema autoritario a uno democratico è un processo complesso, per sua natura caotico, contraddittorio e, soprattutto, niente affatto scontato. La Tunisia, che nel 2010 diede avvio alle cosiddette Primavere arabe, non fa eccezione a questa regola. Il Paese, nel corso degli ultimi nove anni, ha dovuto affrontare profondi cambiamenti e molte difficoltà.

Il complicato processo, politico e istituzionale, di democratizzazione, può oggi essere considerato sostanzialmente un successo e molti osservatori indicano la Tunisia come un esempio per il resto del mondo arabo. Nonostante la sfida posta allo Stato dagli estremisti islamici, che nel 2015 misero in ginocchio l’importante settore turistico del Paese a seguito degli attentati compiuti al museo del Bardo e a Susa, in questi anni la democratizzazione non si è interrotta. Le istanze islamiche moderate del partito Ennhada sono state pienamente rappresentate nel quadro politico e istituzionale tunisino, così come le espressioni più laiche della società.

Tale quadro è stato sostanzialmente confermato nel corso delle recenti elezioni presidenziali, che hanno visto la vittoria di Kais Saied, docente di Diritto costituzionale e figura esterna al tradizionale establishment politico tunisino. Saied, che ha vinto al secondo turno con oltre il 75% dei voti e ha ricevuto un ampio appoggio dagli strati più giovani della popolazione, ha vinto soprattutto perché ha dedicato grande attenzione ai temi economici e sociali. Si è impegnato ad avviare una lotta senza quartiere alla corruzione – ritenuta dai cittadini uno dei principali mali del Paese –, ad aumentare il ruolo sociale dello Stato e a portare avanti un processo di decentramento amministrativo basato sulla democrazia diretta che dia più voce e poteri decisionali alle realtà locali.

Tali temi hanno fatto breccia in un Paese che, sul piano sociale ed economico, presenta grandi elementi di contraddizione e non ha ancora trovato una propria stabilità. La crescita è, infatti, insufficiente a ridurre una disoccupazione che supera il 15% – tra i giovani è oltre il 30% –, mentre l’inflazione, nel 2018, si è attestata al 7,5%. La debolezza dell’economia e le forti diseguaglianze sociali sono i temi che la politica tunisina deve oggi affrontare. Questioni delicate, da mettere in stretta relazione alla minaccia rappresentata dal radicalismo islamico.

Nonostante la Tunisia rappresenti un modello di sostanziale successo sul piano della transizione politica, in alcune aree del Paese sono, infatti, ancora presenti gruppi terroristici di matrice islamica e circa 8mila foreign fighters attivi in questi ultimi anni in Siria, in Iraq e in Libia provenivano da lì. Migliorare le condizioni socioeconomiche del Paese è dunque necessario anche per togliere spazio al radicalismo islamico.

Se non ci sono dubbi su quali siano le priorità, molto più complicato è stabilire come possano essere raggiunti determinati obiettivi. Nonostante gli aiuti ricevuti a partire dal 2011 da molti Paesi e organismi internazionali, l’economia tunisina stenta comunque a crescere e presenta una serie di problemi strutturali lontani dall’essere risolti.

Secondo un rapporto del giugno 2019 del Fmi, che dal 2016 sostiene il Paese con un piano di aiuti quadriennale di circa tre miliardi di dollari, è prioritario per il governo procedere a una stabilizzazione macroeconomica socialmente più bilanciata. Ciò significa creare le condizioni per aumentare il tasso di crescita – nel 2019 stimato all’1,5% – attraverso politiche capaci di ridurre la spesa pubblica, garantire una crescita sostenibile e incidere così sulle diseguaglianze sociali.

Secondo il Fmi occorre poi realizzare riforme strutturali per favorire gli investimenti, soprattutto esteri, migliorare la bilancia commerciale, ampliare l’accesso al credito e ridurre drasticamente la corruzione. Per fare ciò il governo tunisino dovrà ristrutturare profondamente la spesa pubblica, operando tagli dolorosi che rischiano di mettergli contro i sindacati del Paese, in modo particolare la potente Ugtt (Union générale tunisienne du travail). La sfida sarà dunque quella di raggiungere un equilibrio tra le riforme strutturali necessarie a migliorare l’economia, e le politiche tese ad aumentare il livello di inclusione sociale. Una sfida complessa, il cui esito è tutt’altro che scontato.

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