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Il dopo Brexit è avvolto nel fumo di Londra. Le incognite secondo Stefanini

Di Stefano Stefanini

Il voto britannico del 12 dicembre ha dato a Boris Johnson una clamorosa vittoria politica e personale; un’indiscussa leadership. Ha restituito al Regno Unito l’invidiabile governabilità di una maggioranza parlamentare netta, non legata ad acrobatiche o fragili alleanze; gli sfuggiva da un decennio e sfugge, con poche eccezioni, al resto dell’Europa. Ha detto l’ultima parola su Brexit, spianando la via all’uscita di Londra dall’Unione Europea il 31 gennaio, senza le angosce di un salto nel buio; c’è un accordo di recesso Ue-Uk e sarà approvato facilmente dal nuovo Parlamento. Non poca cosa, ma le certezze finiscono qui.

Il dopo Brexit è avvolto nel fumo di Londra. Boris Johnson è andato alle urne per sbloccare un Parlamento dove era privo di maggioranza e che gli bloccava ostinatamente l’accordo con l’Ue. Ci è riuscito, andando al di là delle aspettative con un successo elettorale che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e Tony Blair. All’indomani del voto, se Downing Street festeggiava, da Bruxelles il Consiglio Europeo tirava un sospiro di sollievo. La vittoria di Johnson ha rimosso (per ora) l’incubo di Brexit senza accordo, con disastrose conseguenze per tutti, da una parte e dall’altra della Manica. E basta con i rinvii: l’ultima cosa che la nuova Commissione e i leader Ue volevano era il protrarsi dell’incertezza.

Sessant’anni dopo l’Inghilterra senza Impero descritta da Domenico Bartoli (1960), dobbiamo abituarci al Regno Unito senza Unione Europea – e all’Ue senza Uk. I più diretti interessati sono i britannici, ma la cosa tocca molto vicino anche il “continente”. Non sanno e non sappiamo dove andrà; forse non lo sa neppure Boris Johnson. La risposta che darà, nei cinque anni tranquilli di residenza che si è assicurato al numero 10 di Downing Street, dipende da quattro fattori. Due interni, due esterni.

Interni. Primo, l’economia. Johnson deve far quadrare col bilancio le molte promesse elettorali, ad esempio sul servizio sanitario nazionale (Nhs). Finito l’anno di transizione 2020, Brexit arriverà davvero dal 1° gennaio 2021. Quali le conseguenze? Anche una modesta recessione gli manderebbe i piani per aria. Secondo, l’unione. Il voto gli lascia il Regno Unito più disunito che mai. Basta guardare una mappa elettorale. L’Inghilterra è blu (conservatore), tranne Londra e intorno alle altre grandi città in rosso (laburista); la Scozia è quasi tutta gialla (Snp, indipendentista); in Irlanda del Nord c’è più verdolino (Sinn Fein) che bordeaux (Dup, unionista); persino il fedele Galles è diviso fra blu e verde (“green” party). Brexit, mi diceva un anno fa un ex-ambasciatore britannico – scozzese – è un “progetto inglese”. La strada di Johnson per farne un progetto britannico è in salita, specie a Edimburgo ma anche a Belfast.

Esterni. Dove si colloca Uk, potenza rispettabile ma media, fra i giganti: Usa e Cina, innanzitutto, ma anche Ue, superpotenza economica, e Russia, che rimane un formidabile rivale strategico e militare? La naturale scelta è atlantica, ma c’è l’accordo per il 5g, sia pure limitato, con Huawei da far quadrare con le pressioni americane. C’è una serie di questioni, dai cambiamenti climatici all’Iran, su cui Londra, e lo stesso Johnson, sono più vicini all’Europa che non all’America di Trump. Lo dimostra la forte collaborazione a Tre, con Germania e Francia – cruccio italiano ma anche causata dalla nostra lunga disattenzione internazionale. I “3E” sono vivi e vegeti indipendentemente da Brexit – la Parigi di Emmanuel Macron ci punta molto. In politica estera Uk è stato spesso l’anello di congiunzione, indispensabile alla Nato, fra americani ed europei. Continuerà ad esserlo o sceglierà si seminare zizzania nell’Atlantico e nell’Ue, dove può trovare simpatie anti-Bruxelles?

Sul piano specifico Uk-Ue, dal 1° febbraio Bruxelles e Londra avranno solo undici mesi di transizione per negoziare il futuro rapporto. Quello, non l’uscita del 31 gennaio, sarà il vero banco di prova. Cosa vuole Johnson? Rischiare di nuovo la rottura o trovare un accordo “civile” con regole comuni? L’Ue vorrebbe evitare di ritrovarsi con un concorrente, magari sleale, a qualche decina di miglia dalle coste francesi e belghe. Dovrà però abbandonare la finzione formalistica di trattare il Regno Unito come è un Paese “terzo” qualsiasi. Non lo è per dimensioni, economia, geografia, storia. Non lo è perché ex-coniuge dopo il divorzio.

Boris Johnson ha vinto e convinto cavalcando il “fare Brexit”. Fatta Brexit bisogna fare il dopo Brexit, gli avrebbe detto un vecchio statista piemontese.  Auguriamogli buona fortuna. È nel nostro interesse di italiani e europei: la Manica è stretta, Atlantico e Mediterraneo contigui. Malgrado il divorzio i destini britannici e quelli europei continueranno ad essere indissolubilmente intricati. Lo sono da più di duemila anni. Non sarà Brexit a dirottare il fiume della storia.

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