I convulsi e dirompenti eventi del periodo 1989-1991 che segnano la fine del blocco socialista e il crollo della stessa Unione Sovietica rappresentano sicuramente un punto di svolta centrale della storia delle relazioni internazionali. La fine dell’equilibrio bipolare sconvolgeva la vita politica internazionale che per decenni si era snodata intorno al rapporto tra le due superpotenze. Benché durante la Guerra fredda le forme del confronto bipolare siano state mutevoli, la logica della contrapposizione era totalizzante per tutti gli Stati della comunità internazionale.
L’esistenza di uno schema bipolare stabile forniva lo sfondo comune dei rapporti internazionali, ma anche un sistema interpretativo comune dei rapporti politici. Ad un livello inferiore tuttavia si sviluppavano forze e tendenze politiche, demografiche ed economiche che, oltre a minarne la validità, rendevano lo schema bipolare sempre di più un’armatura vuota o un mero ordine apparente. L’accelerazione della globalizzazione, l’ingresso sulla scena internazionale di nuovi attori non statuali, gli stravolgimenti dettati dal progresso tecnologico e l’esplosione del tema demografico rappresentano delle linee di fondo di lungo periodo che inevitabilmente avrebbero condizionato gli equilibri internazionali.
Tra questi aspetti tuttavia si colloca anche una tendenza di lungo periodo che causò però degli effetti immediati durante i tumultuosi anni seguiti alla disgregazione del blocco comunista. La logica bipolare aveva neutralizzato per quasi mezzo secolo le aspirazioni e i risentimenti nazionalisti che adesso, liberati dalle catene del contrasto tra superpotenze tornavano a configurarsi come conflitti reali o crisi regionali. Da questo punto di vista gli effetti della fine della Guerra fredda si manifestarono non solo all’interno del blocco, ma anche nei Paesi ex satelliti di Mosca o collegati al mondo socialista. Questi immediate conseguente rappresentarono il banco di prova più evidente su cui un possibile “nuovo ordine mondiale” sarebbe stato messo alla prova e su cui gli Stati Uniti avrebbero sperimentato la propria egemonia globale e i suoi limiti.
Se il principale successo di Tito a livello internazionale fu la creazione di uno Stato socialista, ma “non allineato” a Mosca e in grado di perseguire una politica estera autonoma, è opinione comune che a livello interno il risultato più stupefacente sia stata la pacificazione dei conflitti etnici interni. I valori unificanti del dittatore, dell’ideologia ufficiale della “fratellanza e unità” (Bratstvo i jedinstvo era uno dei motti della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e della resistenza, accompagnati da una forte centralizzazione burocratica e militare, sicuramente costituirono la pietra angolare della Jugoslavia unita. Tuttavia, se questo fosse stato l’unico collante dello Stato federale, risulterebbe difficilmente comprensibile come dopo quasi 50 anni di fratellanza le nazioni balcaniche siano riuscite a scatenare il più lungo e sanguinoso conflitto europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Nonostante l’idea di una unione di tutti i popoli jugoslavi sotto lo stesso Stato avesse radici lontane, alla nascita della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia Tito era consapevole del particolare intreccio etnico e religioso formatosi nei secoli nella penisola. Proprio in funzione di tale composizione etnica, ritenne che la forma di stato federativa fosse l’unica possibile soluzione per contenere le diverse spinte nazionalistiche. Il principio che guidò la divisione interna della Jugoslavia in Repubbliche da parte del Partito Comunista fu quello di riconoscere le diversità etniche del Paese mantenendo le divisioni territoriali tradizionali. Il processo di definizione dei confini nazionali tuttavia non riuscì efficacemente a sedare le rivendicazioni e le spinte centrifughe interne alla federazione. Se in Slovenia la composizione etnica era abbastanza omogenea, all’interno della Croazia venne riconosciuta la presenza di una minoranza serba a cui venne conferito lo status di nazione costitutiva. La Bosnia venne riconosciuta come una delle Repubbliche della Federazione, creando forti attriti tra la comunità serba, quella croata e quella musulmana, ognuna delle quali convinta del proprio diritto di essere sovrana nell’intera regione, o almeno nella propria parte. La Serbia invece venne privata della Macedonia, conquistata militarmente durante le guerre balcaniche del 1913, che veniva riconosciuta come Repubblica autonoma al pari del Montenegro, che invece era divenuto parte integrante della Serbia nel 1918. La Serbia vedeva inoltre limitare la propria sovranità con la costituzione delle Province Autonome del Kosovo a sud, e della Vojvodina a nord. Entrambe queste province erano considerate dai serbi come parte integrante del proprio territorio nazionale.
“Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito” era sicuramente uno slogan efficace, ma durante i decenni del regime socialista le tendenze autonomiste e nazionaliste non erano scomparse. La battaglia politica intrapresa da Tito per la “jugoslavizzazione” dello Stato e dei cittadini, condotta con strumenti tanto politici quanto militari, dimostrava quanto la speranza che le rivendicazioni etniche potessero essere dimenticate in nome dell’internazionalismo proletario e del perseguimento della “via jugoslava al socialismo” fosse remota. Un intricato meccanismo politico, militare e burocratico aveva in realtà spostato la contesa nazionale all’interno dello Stato socialista, dove le decisioni erano sempre legate agli equilibri etnici interni.
La centralizzazione e la jugoslavizzazione del Paese, nonostante il potere incontrastato di Tito, già nel 1974 mostravano i propri limiti. Il varo di una nuova costituzione che conteneva elementi federali e confederali (alle sei Repubbliche veniva riconosciuto il diritto alla secessione e all’autodeterminazione, insieme ad una serie di autonomie soprattutto relative al settore economico ed alla possibilità di ricorrere al diritto di veto sulle decisioni federali riguardanti temi di interesse comune a tutte le Repubbliche) rappresentava il tentativo di mantenere sotto controllo i rancori, le rivendicazioni e le pressioni delle diverse componenti etniche.
Quando il 25 giugno 1991 la Slovenia e la Croazia dichiararono la propria indipendenza da Belgrado, il maresciallo Tito era morto da circa 11 anni (4 maggio 1980). Dopo la sua morte la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia era sopravvissuta alle continue pressioni centrifughe e stava vivendo una crisi economica prolungata che appariva senza via d’uscita mentre il divario interno continuava ad allargarsi. Nella disgregazione della Federazione sicuramente i fattori interni hanno giocato un ruolo rilevante, ma era stata la fine della Guerra Fredda, vera chiave di volta della stabilità internazionale e di conseguenza interna a determinare il susseguirsi degli eventi. Un mutamento così profondo nel contesto internazionale, ed europeo in particolare, scatenava forze nazionali, etniche e religiose che il contesto bipolare aveva cristallizzato all’interno di uno schema rigido.
L’esplosione dirompente di quelle forze ha portato alla fine delle Federazione anche attraverso una serie di conflitti e di guerre che per un decennio hanno insanguinato i Balcani, e che si sono conclusi solo con l’intervento Nato in Kosovo e di cui strascichi di tensioni e rivendicazioni sono giunte fino ai nostri giorni. Nelle faglie e nelle ferite delle tensioni e delle rivalità tuttora presenti nell’area si sono inserite anche nuove forme di competizione, non solo locale, ma anche di natura strategica che rendono ancora oggi i Balcani occidentali un crocevia di interessi diversi, di Paesi spesso su sponde diverse dell’attuale competizione globale e anche una delle aree di maggiore potenziale instabilità all’interno del continente europeo.