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La Cina è un pericolo e Trump l’ha capito. Parla Dottori

Di Enrico Casini

Per alcuni analisti la “Nuova Guerra Fredda” è già cominciata. Indubbiamente, a trenta anni dalla caduta del Muro di Berlino, lo scenario politico globale è profondamente cambiato e la rivalità tra le grandi potenze, con epicentro principale l’area Indo-pacifica, potrebbe essere il cuore del nuovo ordine mondiale. Un’evoluzione ben diversa da quello che era sembrato all’indomani della caduta del muro e della successiva crisi dell’Unione Sovietica. La sfida tra Usa e Cina condizionerà probabilmente le scelte presenti e future non solo dei due protagonisti. Per Germano Dottori, Docente Luiss e consigliere scientifico di Limes, “l’Europa e la Nato hanno una scelta da fare. Se vogliono restare rilevanti, debbono appoggiare il contenimento della Cina, cambiando fisionomia, aprendosi a nuove membership in altri teatri”.

Professor Dottori, trenta anni fa assistevamo al crollo del Muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda. Negli anni successivi al 1989 si è parlato di “fine della storia” e di egemonia unipolare americana. Oggi in realtà è il mondo occidentale, che era uscito vincitore dalla fine della Guerra Fredda, sembra attraversare una fase di difficoltà. Cosa è successo in questi ultimi anni in occidente?

Siamo entrati in una fase di difficoltà che era stata prevista da Carlo Jean al momento stesso del crollo del Muro di Berlino. Insieme all’Urss è venuto meno il nemico comune, vero federatore dell’Occidente, al di là dei valori condivisi. Il fattore che aveva tenuto gli Stati Uniti con un piede saldo e visibile in Europa, assicurando quella leadership che attualmente è tornata oggetto di contesa tra i maggiori paesi dell’Unione. Diciamo che ci stiamo un po’ sfilacciando. Ci sono spazi vuoti. Alcune potenze europee e mediterranee stanno vivendo un periodo di revival delle loro ambizioni. Non tutto, comunque, è perduto.

Certamente uno dei fatti più rilevanti dalla fine della Guerra fredda è oggi stata l’ascesa politica della Cina. Gli Stati Uniti guardano da diversi anni ormai, con molta attenzione, l’ascesa cinese. In molti ritengono che la Cina sia l’unica potenza mondiale in grado di eguagliare gli Usa e contendere la loro supremazia globale. Secondo lei è possibile che la Cina possa eguagliare e superare gli Stati Uniti nel suo ruolo di superpotenza globale?

Sicuramente, l’ambizione cinese è quella. Si sono industrializzati, hanno raggiunto una considerevole forza economica che adesso stanno convertendo in capacità militari e penetrazione politica. Vogliono trasformare il mondo e cambiare a loro favore le regole del gioco. La prova di forza con gli Stati Uniti sembra inevitabile, se non altro a livello politico. Ma non sono da escludere ulteriori sviluppi. In questa possibile contesa dovremo aver chiaro come ci posizioniamo.

Di recente si è tornati anche a parlare di nuova Guerra fredda, sul modello della competizione tra Usa e URSS,  per quanto riguarda la crescente rivalità tra USA e Cina.  Secondo lei siamo davvero dentro una “nuova Guerra fredda”?

Sicuramente l’ascesa cinese ha perso gran parte del carattere benevolo che aveva. Ma non è detto che si arrivi ad una competizione frontale dello stesso tipo. I cinesi stanno penetrando in Occidente con tecniche diverse. Non cercano la contrapposizione alla Nato, ma il suo svuotamento dall’interno. E non usano l’intimidazione militare, ma strumenti d’altro tipo, il primo dei quali è l’attrazione esercitata dalla loro ricchezza.

Secondo Graham Allison Cina e Stati Uniti sono caduti nella “trappola di Tucidide”, ovvero, sul modello del confronto tra Sparta e Atene durante la Guerra del Peloponneso, questo teorema si verifica nella storia quando una potenza dominante alla fine può dover ricorrere alla forza per impedire ad una potenza emergente di affermarsi.  Lei ritiene che davvero, Cina e Stati Uniti, siano finiti nella trappola di Tucidide e che la loro competizione potrebbe dare vita, in futuro, a qualcosa di più di una semplice rivalità commerciale?

Siamo già ben oltre la rivalità commerciale. A mio avviso le misure varate da Trump contro Pechino sono manifestazioni di una politica di containment dalla valenza prettamente politica. La Casa Bianca vuol rallentare il progresso tecnologico cinese. Se poi ottiene in un negoziato anche qualche vantaggio commerciale, meglio ancora. A mio avviso anche la politica attuata da Trump nei confronti della Corea del Nord ha obiettivi diversi da quelli dichiarati. Il tycoon vorrebbe soprattutto sganciare Pyongyang da Pechino. Non escludo che a certe condizioni, possa accettare anche che possieda qualche ordigno nucleare.

Cosa caratterizza l’approccio di Donald Trump al confronto con la Cina?

La presa d’atto del fatto che l’ascesa della Cina non è più così benigna come si era creduto fino a qualche tempo fa. Trump teme anche la saldatura tra Repubblica Popolare ed Europa. In questo, è più avanti di buona parte della sua Amministrazione e del Congresso. Ma la percezione del pericolo sta diffondendosi.

E a quello con la Russia?

La sensazione, presente nella mente del Presidente addirittura dagli anni ottanta, che Mosca non sia un pericolo, trattandosi fondamentalmente di un Paese povero. Il timore della saldatura eurocinese, inoltre, lo spinge a cercare la strada dell’accordo. Il miglior modo di prevenire l’intesa tra Pechino e gli Stati europei che contano è proprio l’inserimento di un cuneo, scommettendo sulla Russia e sull’India, in modo tale da tagliare le vie della seta. I russi potrebbero anche assumersi delle responsabilità nella stabilizzazione di teatri in cui gli Stati Uniti non vogliono più stare. Ma su questo specifico punto dell’agenda del Presidente, non c’è consenso nel Congresso e in molti settori dell’Amministrazione. Un’ondata anomala di maccartismo ha comunque fermato Trump. Anche Putin, peraltro, desidera svincolarsi dall’abbraccio con Pechino. Invia spesso segnali all’Occidente. Afferma di considerare Pietro il Grande, l’uomo che ha portato la capitale russa sul Baltico, come il suo punto di riferimento. E anche alla vigilia del summit atlantico di Londra ha ricordato di desiderare un miglioramento dei rapporti. Ma anche per Putin la via della riconciliazione è stretta. A causa di resistenze assai simili a quelle che fronteggia Trump.

Perché in molti analisti definiscono l’approccio alla politica estera di Donald Trump come una “rottura” con la tradizione politica americana?

Perché ne hanno una percezione che si basa soltanto su ciò che gli Stati Uniti hanno fatto e predicato dal 1918 in avanti e soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nella tradizione politica americana confluiscono però molte tendenze e ve ne sono anche di più antiche di quella wilsoniana che accumuna progressisti e neoconservatori. Trump è l’espressione di una scuola rimasta a lungo nell’ombra, ma non per questo meno autentica.

In questa fase di tensione tra Usa e Cina, quali potrebbero essere invece le conseguenze per l’Europa?

Mi sembra chiaro che l’Europa sia destinata a divenire un terreno di competizione tra gli americani, che hanno un po’ allentato la presa, e i cinesi che stanno penetrando in modo sempre più vistoso.

Secondo lei, a prescindere dal risultato che le elezioni presidenziali americane avranno, con gli Usa sempre più orientati verso il Pacifico, cosa aspetta la Nato?

Bisogna chiarirsi sul significato da attribuire a questo orientamento verso il Pacifico, che è già diventato in realtà qualcosa di diverso, l’Indopacifico. Se consideriamo questo riferimento un modo “politicamente corretto” per alludere alla gara di potenza con la Cina, il discorso diventa molto più complesso. Non può esservi più alcuna delimitazione geografica, chiamando in causa l’economia, il controllo delle tecnologie emergenti e lo spazio extratmosferico. L’Europa e la Nato hanno una scelta da fare. Se vogliono restare rilevanti, debbono appoggiare il contenimento della Cina, cambiando fisionomia, aprendosi a nuove membership in altri teatri, ad esempio invitando ad aderirvi Stati come l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone. Non è detto, però, che sia questa la posizione che prevarrà, come vorremmo noi atlantisti.


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