Si chiude un anno di grandi ricorrenze. Fra queste il trentennale dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, l’evento che ha cambiato la geografia politica dell’Europa continentale e avviato il riassetto degli equilibri internazionali. Quale lezione di quegli anni di contrapposizione globale e sfida per l’egemonia resta attuale per il decennio che verrà? Lo abbiamo chiesto a Massimo Teodori, storico, saggista, a lungo docente di Storia e istituzioni degli Stati Uniti presso l’Università di Perugia.
Teodori, lei è uno dei più importanti studiosi della storia degli Stati Uniti e nel novembre del 1989 era anche parlamentare radicale. Si ricorda come accolsero gli Stati Uniti la caduta del muro di Berlino?
Berlino era il nodo cruciale intorno a cui si erano sviluppati i momenti più caldi della Guerra fredda. Non è senza significato che proprio intorno a quel nodo aperto dei rapporti tra l’Occidente e il mondo comunista gli Stati Uniti avessero giocato il loro principale ruolo di leader del mondo libero quando nel 1949 l’Unione Sovietica di Stalin pose il blocco di tutte le vie di comunicazione che collegavano i settori americano, inglese e francese della città alla Germania occidentale. Stalin voleva mettere alla prova gli americani per capire se avessero in mente di avanzare oltre la cortina di ferro, magari con l’aiuto dei partiti comunisti delle democrazie europee, specialmente in Italia e Francia.
Uno spartiacque nella storia europea…
Il ponte aereo organizzato dagli americani con le fortezze volanti che partivano da Francoforte e arrivavano a Berlino ovest ogni cinque minuti per 15 mesi al fine di rifornire Berlino di tutto (dal carbone alle caramelle), rese concreto il primo e più importante pilastro di quel “contenimento” dei sovietici, ideato dal giovane diplomatico George Kennan residente a Mosca ed attuato dal presidente Harry Truman con la “dottrina” enunciata nel marzo 1947. Da allora Berlino divenne il simbolo del confronto tra Occidente e comunismo, una autentica vetrina del mondo libero sul totalitarismo.
E Kennedy disse: “Ich bin Berliner”.
Quel discorso del 1962 confermò di nuovo quanto essenziale gli americani ritenessero la difesa dell’Europa nella loro strategia di leader dell’ordine internazionale. Con quella storia alle spalle, gli Stati Uniti considerarono la caduta del muro come il punto di arrivo vittorioso della politica europea che avevano perseguito per quarant’anni nel quadro della solidarietà atlantica.
Durante gli anni del muro gli Stati Uniti avevano dei rapporti con la Germania dell’Est e in generale con i paesi sotto l’influenza sovietica?
I più importanti rapporti che gli Stati Uniti avevano con il blocco sovietico riguardavano il mantenimento dello status quo internazionale in Europa e in Asia. Tutte le volte che i movimenti e gli Stati comunisti debordavano dalle linee di confine risultanti dalle rispettive occupazioni militari alla fine della Seconda guerra militare, scoppiavano i conflitti regionali che hanno punteggiato il quadro internazionale dal 1949 al 1989: Corea, Cuba, Cina e Vietnam. Ma mai in Europa è stato usato il fucile dopo l’altolà di Berlino.
C’era di peggio: le armi nucleari.
L’America ha sempre tenuto fede, anche se con un andamento a singhiozzo, agli accordi sulla limitazione delle armi nucleari che fino all’arrivo di Trump hanno faticosamente ridotto gli arsenali. Anche questo aspetto non va dimenticato: che la “pace” internazionale – al di là dei conflitti regionali – è stata mantenuta grazie all’equilibrio del terrore che a lungo ha fatto da deterrente: “Nessuno può fare la prima mossa perché altrimenti l’umanità scompare”. Berlino serviva soprattutto per i rapporti tra i Servizi al fine di scambiare i prigionieri dei due campi come hanno raccontato alcuni bei film. Del resto la specializzazione della Germania orientale era lo spionaggio e in tal senso Berlino era divenuto il canale privilegiato per lo scambio delle spie.
Oggi si ha la sensazione che spesso gli Stati Uniti preferiscano intessere rapporti con i singoli Stati europei che con l’Ue nel suo complesso. È così?
Oggi la presidenza Trump ha rotto decisamente con quell’internazionalismo liberale che per oltre mezzo secolo è stato, pur tra contraddizioni, la bussola della politica estera americana, sia con i presidenti democratici che con quelli repubblicani. Trump con America First ha mandato a monte proprio quello che aveva unito negli Stati Uniti i conservatori ai liberali e ne aveva fatto il perno dell’impegno internazionale che potremmo, con molta approssimazione, definire antitotalitario.
Come ci sta riuscendo?
Trump è contro i trattati multilaterali, contro le organizzazioni internazionali fondate sul diritto, contro le alleanze militari come risvolto di solidarietà politica tra Paesi democratici, contro una visione internazionale dei diritti umani e l’ingerenza umanitaria, ha profonda affinità e simpatia con gli autocrati che non vanno per il sottile e pensa alla politica internazionale come uno scambio do ut des, in termini mercantili.
Torniamo al muro di Berlino. L’opinione pubblica occidentale sentiva più la Guerra Fredda di quanto non senta oggi la rivalità con Russia e Cina?
Certo, la politica occidentale, e segnatamente quella italiana, è stata profondamente condizionata dalla Guerra fredda. Forse i partiti italiani sono andati anche al di là di quello che richiedevano le superpotenze. È noto che i comunisti sono rimasti sempre vincolati, nella testa prima ancora che nella pratica, ma qualcosa di analogo accadeva anche agli occidentalisti che non sempre avevano sufficiente senso e orgoglio dell’autonomia politica. Oggi tutto è scombussolato. Le forze politiche italiane non hanno più alcuna bussola.