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Conflitti nel Mediterraneo. Il ruolo del multilateralismo (e delle donne) a Med 2019

Come gestire e stabilizzare i conflitti nel Mediterraneo? È questa la domanda che ha guidato il panel Managing conflicts and stabilization in a broader Mediterranean dell’edizione 2019 di Med – Mediterranean Dialogues, tradizionale appuntamento promosso da Ispi e ministero degli Esteri.

A discutere dei conflitti vecchi e nuovi che infestano il Mediterraneo e il Medioriente e di quale cura somministrare ai pazienti, i Paesi ammalati di conflittualità, Staffan De Mistura, ex inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Stefano Del Col, Capo missione e comandante Unifil in Libano, Khaled Khiari, assistente segretario generale per Medio Oriente, Asia e Pacifico, Dipartimenti degli affari politici e di consolidamento della pace e operazioni di pace delle Nazioni Unite, Miguel Angel Moratinos, Alto rappresentante per Alleanza delle civiltà, Onu ed Elisabeth Spehar, Rappresentante speciale e capo della Forza di mantenimento della pace a Cipro, Nazioni Unite.

MULTILATERALISMO E COINVOLGIMENTO DEI CIVILI: CHIAVI DEI CONFLITTI 

La cura alla conflittualità arriva dal multilateralismo che, sebbene messo sotto attacco dal protagonismo e dalla divergenza di interessi geopolitici delle grandi potenze, e dal coinvolgimento attivo della popolazione. “L’Onu è impegnato con determinazione nelle aree del Mediterraneo interessate da conflitti vecchi ai quali se ne sono aggiunti di nuovi, senza che fossero risolti i vecchi”, dice Miguel Angel Moratinos. “Il conflitto tra Israele e Palestina si accinge a diventare la guerra dei cent’anni dei nostri tempi. E la responsabilità è anche delle istituzioni internazionali. Ad esempio negli accordi di Camp David abbiamo ragionato da occidentali, non abbiamo considerato il valore che quei popoli attribuivano alla religione e non abbiamo tenuto in considerazione il ruolo di Gerusalemme. Per risolvere davvero questioni complesse dobbiamo affrontare le cause profonde e conquistare il cuore della gente”.

A complicare la soluzione dei conflitti ci sono anche le posizioni divergenti all’interno dell’Onu. “Le divisioni profonde nel Consiglio di sicurezza dell’Onu mettono a rischio la soluzione di crisi complesse come quella in Yemen o in Libia – dice Khaled Khiari -. L’efficacia delle nostre azioni rischia di essere compromessa se le azioni dei soggetti con i quali interagiamo rispondono a interessi geopolitici divergenti. I governi, soprattutto nelle democrazie, devono rispondere all’opinione pubblica e spesso faticano a compiere scelte impopolari”.

IL SACRIFICIO DELLE DONNE NELLA FINE DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN

Dagli interventi dei relatori emerge chiaramente che, a prescindere dalla zona di intervento, nessun risultato stabile sarà raggiunto senza il coinvolgimento effettivo delle donne. “In tutte le operazioni di pace noi dobbiamo focalizzarci sulle persone – dice Elisabeth Spehar, rappresentante speciale e capo della Forza di mantenimento della pace a Cipro dove dal 1963 è vi sono tensioni che occasionalmente sfociano in veri e propri atti di guerra tra la comunità greco-cipriota e quella turco-cipriota. Mettere in sicurezza i 180 km di zona cuscinetto a Cipro ed essere sempre presenti in caso di animosità non basta. Occorre da un lato garantire la sicurezza ma dall’altro ridurre le disuguaglianze. Richiedere un maggiore coinvolgimento delle donne nel processo di pace, possono rivestire un ruolo particolare, possono essere una scossa per la ripresa dei negoziati”.

Dopo quasi vent’anni di guerra la presidenza Trump potrebbe essere ricordata come quella che ha messo fine al conflitto in Afghanistan. Il presidente degli Stati Uniti, nel corso della sua visita, in occasione del Giorno del ringraziamento, alle truppe americane impegnate in Afghanistan, ha dichiarato che le trattative sono aperte e che i talebani hanno tutta l’intenzione di trovare un accordo. Quello che preoccupa la comunità internazionale è che sull’altare del disimpegno possano essere sacrificati i diritti delle donne, che nel corso degli ultimi vent’anni hanno fatto piccoli ma significativi passi in avanti.

“Noi lavoriamo ogni giorno per favorire e incentivare l’integrazione delle donne nel processo di pace – dice Khaled Khiari –. L’Onu non abbatte porte ma lavora passo dopo passo. Abbiamo presentato ai nostri colleghi degli studi che dimostrano che il coinvolgimento delle donne ha effetti positivi e abbiamo fatto presente che secondo noi le donne dovrebbero essere chiamate a fare parte del tavolo negoziale. Molte donne ne hanno le qualifiche e molte altre non sono dove dovrebbero essere. È solo questione di tempo, diciamo che ora il Governo ha questioni più urgenti da risolvere”. Più categorico è Staffan De Mistura che ricorda che la teocrazia talebana aveva impedito alle donne non solo di vestire seguendo i propri gusti ma le aveva anche interdette dall’istruzione scolastica. “Una volta che sarà concluso l’accordo il rischio è che si dimentichi quanto fatto per le donne in Afghanistan – chiosa De Mistura – . I diritti delle donne sono diritti umani”.

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