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Da spia a Zar. La parabola di Putin analizzata da Mikhelidze

Di Nona Mikhelidze

Vladimir Putin è al potere in Russia da ben venti anni, in seguito alla sua investitura da parte dell’allora presidente Boris Eltsin. Per quanto riguarda il suo passato, quello che sappiamo è che, dopo la laurea in Legge presso l’Università statale di Leningrado nel 1975, ha immediatamente cominciato a lavorare per il servizio di Intelligence sovietico, il Kgb, in particolare a Dresda, dal 1985 al 1990. Successivamente è tornato a San Pietroburgo, prima per insegnare all’università e poi per diventare sindaco. Nel 1996 si trasferì a Mosca, per poi diventare capo del Servizio di sicurezza federale russo, Fsb – erede del Kgb – nel 1998. La sua carriera politica continuò con l’elezione, nel 1999, come primo ministro, per poi divenire, a dicembre dello stesso anno, presidente della Federazione Russa.

Il piano di Putin per la ricostruzione della Russia consistette, da subito, nella volontà di fare un accordo con i potenti nuovi ricchi oligarchi, ai quali concesse di accumulare ricchezze in cambio della fedeltà assoluta e del sostegno alla sua figura e al suo progetto di controllo dello Stato. In questo modo nacque il sistema politico che ancora caratterizza la Russia, di sovereign democracy, dove le istituzioni sono manipolate, i rivali politici cooptati e i media controllati.

Un sistema che ha reso possibile l’assassinio plateale del principale esponente dell’opposizione, Boris Netsov, a due passi dal Cremlino, e che presenta una serie di criticità strutturali. Esso è infatti profondamente personalizzato, e la sua legittimità e popolarità è profondamente legata a Putin stesso. Persino il sistema economico è personalizzato e informale, con una leadership per certi aspetti mafiosa, i cui membri hanno accesso a un gran numero di privilegi e di possibilità di arricchimento. L’economia di conseguenza si sta riprendendo molto lentamente dalle sanzioni occidentali del 2014 e dalla fluttuazione dei prezzi petroliferi.

Il modello economico basato sulle immense risorse naturali non risponde più alle esigenze del Paese, e il Cremlino sta cercando di crearne uno nuovo, basato su investimenti e innovazione. La necessità di profonde riforme strutturali, sotto gli occhi di tutti, è divenuta evidente anche allo stesso Putin. Tuttavia, la sua stessa politica non gli consente di poter operare molto sul piano economico. Già nel 2012, nel periodo delle proteste contro di lui, con la criminalizzazione di qualunque Ong che ricevesse fondi stranieri, il presidente decise l’inevitabilità dello scontro con l’occidente. Allo stesso tempo, sacrificando politicamente i liberali al governo, come l’ex ministro delle Finanze Alexei Kudrin, ha anche pregiudicato la modernizzazione economica russa, incanalando tutte le risorse nella spesa militare. Il risultato, durante e dopo il conflitto in Crimea, fu un drastico calo del reddito, un danneggiamento del sistema bancario e una grande difficoltà per le imprese statali di fare fronte ai loro debiti.

Una vera e propria crisi, nel 2016, fu sventata solo grazie alla vendita del 19% della proprietà del colosso petrolifero Rosneft al trader svizzero Glencore e alla Qatar investment authority per 12 miliardi di dollari. Tuttavia, il problema strutturale della dipendenza dalla risorsa petrolifera non è stato preso in esame.

Le sfide da affrontare sono, dunque, principalmente la stagnazione economica e la successione a Putin stesso. Le riforme da lui proposte per risolvere la prima questione costerebbero, secondo gli economisti, fino a 20 trilioni e mezzo di rubli, ma questo implicherebbe una riduzione delle spese militari. Esse sono però necessarie, considerando il pesante aggravarsi delle diseguaglianze economiche in Russia.

Soprattutto i giovani sono sempre più consapevoli che il nepotismo e la corruzione contribuiscono alla loro incertezza economica. È impossibile per loro non notare che le posizioni di vertice sono sempre distribuite tra i fedelissimi di Putin e i loro familiari. La popolarità di Putin è dunque scesa soprattutto fra le persone tra i 17 e i 25 anni, un generazione lontana dalla retorica nostalgica sovietica. Il sostegno dei giovani al presidente è passato dall’80% del 2009 al 32% di quest’anno. Un dato che fa comprendere quanto il conflitto sia anche generazionale. Putin ha 66 anni, come la maggior parte dei suoi fedelissimi.

Questa differenza di età è poi aggravata da diversi valori, atteggiamenti e stili di comunicazione. In conclusione, è difficile riuscire a immaginare una Russia nel 2024 senza Putin, ma quello che appare chiaro è che il sistema politico ed economico da lui creato non è né perfetto né destinato a durare. Una crescente incapacità di rispondere adeguatamente alle esigenze del popolo russo appare già in superficie, e le elezioni a Mosca e San Pietroburgo di quest’anno hanno reso evidente l’insoddisfazione popolare. La Russia sta entrando in un nuovo periodo di attivismo civile e politico, i cui esiti sono imprevedibili.

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