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Morta una Roma, se ne faccia un’altra. I sei punti di Tobia Zevi per ripartire

Di Tobia Zevi

C’è un fantasma che si aggira nel dibattito sulla città di Roma. Ovvero di che cosa vivrà nel prossimo futuro e nel medio/lungo periodo (come diceva Keynes… nel lungo periodo siamo tutti morti. Fermiamoci allora al futuro prossimo e al medio periodo). Ovvero come uscirà dalla crisi, sapendo che il vecchio “Modello Roma” non può tornare. “Lo sviluppo di Roma nel quindicennio è stato una sorta di Minotauro, metà new economy e metà old economy. La nuova economia romana era un fenomeno reale, un successo in controtendenza rispetto a un Paese declinante, ma la sorgente del processo era collocata nei vecchi monopoli pubblici” (una corretta descrizione del “Modello Roma”, apparsa in “Roma. Non si piange su una città coloniale” di Walter Tocci).

Quel modello – al di là dei meriti che pure ha avuto – è ormai superato. I romani, dopo, hanno imparato a fare meno dividendo i pani e i pesci che già possedevano. Si è sezionato e si diviso, ci si è arrangiati e chi aveva un po’ di più metteva a valore le micro-rendite. Pensiamo ai turisti, aumentati in 10 anni di oltre il 50%: in una città con servizi in crisi si è puntato molto sulla quantità – nuovi hotel, B&B, case-vacanza – e assai poco sulla qualità. Oggi ci si arrangia e ci si adatta, come ha descritto il ricercatore del Censis Stefano Sampaolo nel volume collettaneo “Roma in transizione”: si perde il posto di lavoro e lo si reinventa, oppure si fa lo stesso lavoro guadagnando meno; il grafico, il disegnatore di software, l’estetista, il corriere e l’autista di NCC, l’avvocato… chiedono meno o offrono più servizi allo stesso prezzo. Processi adattivi: il calo del Pil romano dall’avvio della crisi è stato del 6,3%.

Oggi, racconta ancora Sampaolo, mentre il numero delle imprese in Italia diminuisce, a Roma la crisi porta un aumento del 11,7% delle ditte (i dati sono del 2017). Il romano (e l’immigrato) si mette in proprio, si arrabatta e saluta il posto al ministero: ditte individuali, partite iva e tanta “economia dei piani terra”. Corsi da pasticciere, da pizzaiolo (muore tanto commercio tradizionale, tranne il “food”) e poi l’attività in proprio: minimarket e ristoranti/take away crescono, in 6 anni, del 20%. E Roma si scopre periferica, con una ricaduta negativa peraltro sull’intero sistema-Paese: “l’area romana pesa appena per il 9% circa del Pil nazionale, contro percentuali ben più elevate ad esempio di Parigi (30%), Vienna (26%), Lisbona (37%), Copenaghen (39%), Londra (22%)”.

E quindi? La mia idea è semplice. Morta una Roma, se ne faccia un’altra. La resilienza è nel dna dei romani, da più di duemila anni e anche in un passato più recente che ricordiamo con una punta di nostalgia. Ma ci vuole un progetto, ci vuole lavoro, ci vogliono “disegnatori” di futuro (sostenuti da una volontà politica). Le domande a cui rispondere, in fondo, sono banali: si può fare impresa? Si può lavorare e vivere, in pace e in libertà, con servizi adeguati alla vita quotidiana e a un’economia dei servizi che assomigli a quella di una città funzionale, con salari adeguati e motori di sviluppo adatti a una città con le caratteristiche di Roma?

Di cosa vive Roma, allora? Non fidatevi di chi promette miracoli: ci vuole serietà, energia e si deve rompere il potere di rendita e di veto di molti. Qui di seguito elenco sei punti da quali penso si debba partire (prometto di approfondirli presto e meglio).

1. Intanto, individuiamo i settori. Non si possono immaginare voli pindarici. Va messo in sicurezza e sostenuto quello che già abbiamo nell’Area Metropolitana: il comparto farmaceutico-sanitario, l’aero-spazio, l’elettronica… va ripensato in modo radicale il comparto del turismo e il suo indotto; serve una regia pubblica per lo sviluppo di un’economia della conoscenza al servizio della città (amministrazione, economia, società) che renda finalmente “di sistema” le nostre università e i tre circuiti diplomatico-consolari; si deve aiutare l’edilizia a rigenerare e riorganizzare in modo efficiente lo spazio urbano, favorendo al contempo sviluppo economico e transizione ecologica.

2. Il tema delle sinergie con lo Stato. Esiste per tutte le capitali: Roma lo deve ripensare. Anche le città che crescono – la stra-citata Milano – si sono rilanciate grazie a una strategia congiunta tra Centro e dimensione locale. Le strategie per l’Expo – una sinergia locale-centrale che ha prodotto classe dirigente, come fu per Roma con il Giubileo del 2000 – sono un esempio. Roma ha fallito l’appuntamento delle Olimpiadi 2024, ma non solo per colpa della Raggi: quel progetto rischiava di non creare un’eredità di rilievo per città. Era il modo antico di concepire il rapporto con l’elargizione pubblica nazionale.

3. A Roma l’impresa deve essere messa in condizioni di fare impresa. C’è un problema di qualità della burocrazia locale, di corruzione, ma anche di svecchiamento di un ceto economico che crede solo nella rendita. Le rendite vanno scongelate e va premiato chi lo fa. Per farlo serve anche una regia di sviluppo e di pianificazione pubblica. Non serve scomodare Mariana Mazzucato, ma è nella sinergia pubblico-privato che si crea innovazione duratura. Roma deve essere un’oasi felice per le start-up, ma smettiamola con l’idea farsesca che lo sviluppo si fa con 3 ragazzi svegli chiusi in un garage. Sono indispensabili, ma poi serve programmazione pubblico-privato per organizzare competenze, formazione, infrastrutture… Non siamo in California, Ostia non è San Francisco.

4. A Roma serve un nuovo assetto istituzionale e un nuovo modello di amministrazione pubblica, per tornare a crescere e aiutare lo sviluppo. L’amministrazione pubblica deve assumere, assumere, assumere: giovani con competenze alte che lavorino per un’amministrazione “goal oriented”.

5. Dobbiamo capire cosa fare delle nostre municipalizzate: possono divenire un motore industriale della città.

6. Serve un piano Marshall per la lotta alle diseguaglianze. Se i soldi saranno pochi, andranno inventate occasioni per attrarre denaro, costruire luoghi e servizi, creare reti. Per esempio, serve un piano di assegnazione gratuita di spazi pubblici della città a chi crea società e coesione sociale. Può sembrare il contrario, ma si tratta di un investimento economico che avrebbe un ritorno importante.

Insomma… discutiamo.

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