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Sardine e partiti. Due idee sulla partecipazione politica

Il fenomeno delle sardine è certamente la notizia del momento su cui si sono già espressi “illustri” opinionisti nella solita costellazione dei “pro” e dei “contro”. Sembra inconcepibile una discussione che privilegi il confronto neutrale, per quanto possibile. Cosa che, a prescindere dal tema,  aiuterebbe a fare chiarezza e comprendere meglio i fenomeni che di volta in volta ci appaiono sotto al naso.

Mi sono trovato, io stesso, al centro di una discussione sulla questione “ma tu che ne pensi delle sardine”? E sono stato interpellato personalmente (che ne penso “io” in quanto “io”) e politicamente (che ne penso “io” in quanto “segretario” di un circolo politico). Come se le cose potessero essere poi così nettamente divise.

Mi sono interrogato. Mi sono confrontato con militanti e/o conoscenti,  che si sono detti “fortemente a favore” e con chi si è detto invece “contrario”. E chi, più o meno, si è detto del tutto indifferente al fenomeno. Esistono anche loro. La mia prima conclusione è che la questione sia decisamente mal posta.

Come militante, attivista politico (e non solo), attivo da ormai un decennio in manifestazioni, gruppi e/o associazioni umanitarie e/o politiche, e via dicendo, che idea potrò mai avere di questo genere di iniziative politiche – sì, politiche! – e della volontà di migliaia di persone di scendere in piazza e dire la propria? Ovviamente un’idea del tutto positiva.

Se però devo fare un’analisi “sociologica”, con uno sforzo di obiettività e neutralità, devo fare un passo indietro rispetto alle mie personali percezioni ed idee. E mettere in conto tutta una serie di fattori, anche numerici, che mi consentano di ampliare lo sguardo sul fenomeno, oggi, delle “sardine”, domani di chissà quale altro.

Partirei dal chiarire un concetto: quello della partecipazione politica. Secondo l’Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani, le manifestazioni di piazza rientrerebbero nella categoria di “partecipazione non convenzionale” che è così spiegata:

“le forme di partecipazione ‘non convenzionale’ costituiscono in un determinato momento storico una qualche rottura rispetto agli schemi tradizionali. Esse rappresentano per definizione una novità rispetto al passato e sono spesso oggetto di controversie che riguardano la loro stessa legittimità. Queste forme di partecipazione si sviluppano spesso contestualmente alla nascita di movimenti collettivi di vario genere (femministi, studenteschi, ecologisti, antiabortisti, autonomisti, antinucleari, di rivolta fiscale, ecc.), che portano sulla scena politica le loro istanze al di fuori dei tradizionali canali di rappresentanza. Naturalmente, il carattere ‘non convenzionale’ di queste forme di partecipazione non può essere duraturo. Col passare del tempo, mano a mano che aumenta la diffusione di questi comportamenti e la loro accettazione, essi si trasformano da fenomeni nuovi e devianti in esperienze acquisite e legittime, e finiscono con l’entrare nel repertorio della partecipazione istituzionalizzata.

A me sembra che se partiamo da questo, diventa tutto molto più chiaro. Come qualsiasi manifestazione di pensiero che genera una mobilitazione concreta di persone, nelle piazze o meno, e che cresce fino a un punto X in cui si costituisce un gruppo con una data numerosità, questi fenomeni passano poi alla fase dell’istituzionalizzazione o si dissolvono. Lo si vede, in questo caso forse con un’eccessiva rapidità, già dopo un mesetto dalla fondazione di quest’esperienza.

Con le parole del “portavoce” del movimento delle 6000 sardine, riportate da Open:

“In questo momento colmiamo un vuoto di rappresentanza quindi i casi sono due: o fondiamo un partito o presentiamo le nostre istanze a chi politica già la fa. Che siano Pd, M5S o destra moderata. Arriveremo a quattro, cinque o sei punti su cui chiederemo alla politica di lavorare”

Personalmente, non credo affatto che ci sia un vuoto di rappresentanza. C’è uno scollamento grande tra rappresentati e rappresentanti che è dovuto a una moltitudine di fattori. Ma una rappresentanza c’è. In Emilia-Romagna, dove il movimento nasce, come contro-altare a Matteo Salvini e alla Lega, c’è un candidato, Bonaccini, sostenuto dal PD e da altre liste del centro-sinistra, che concorrono contro la Lega e FdI e la loro candidata. Così come esiste, a livello nazionale, una serie di forze impegnate contro il centro-destra.

Nelle prime interviste rilasciate e che ho sentito, ammetto, erano per me gli obiettivi e le idee del tutto incomprensibili. Anche alla domanda: ti candideresti col PD se te lo chiedessero. La risposta, pasticciata, arriva dopo un giro pindarico di diversi minuti. Ed è una risposta negativa. Ecco. Vorrei quindi mettere in evidenza alcuni punti, schematicamente:

  1. ogni manifestazione libera, democratica e civile, che si genera dal basso è da abbracciare e sostenere. Perché questo è un ingrediente fondamentale della democrazia. Ma dobbiamo anche evitare una certa retorica, che ho sentito e che mi è stata pure riferita, per cui “finalmente dopo anni, si torna nelle piazze”. Nelle piazza ci siamo sempre andati, e ci continueremo ad andare. Il punto è un altro: quali scopi si prefiggono queste piazze? Quali istanze sostengono? A chi si rivolgono? Da chi sono composte (nessuno di quelli vota per Salvini. Il punto, quindi, è: cosa fare per convincere quel 50% invece che Salvini lo vota. E che in quelle piazze non c’è);
  2. l’impegno politico, per me, non può esaurirsi né in una partecipazione sporadica a manifestazioni di piazza, né all’esercizio di un diritto-dovere, come il voto. Serve una partecipazione attiva e costante alla cosa pubblica. Solo così, il popolo sovrano, nella formulazione costituzionale, può realmente esercitare il proprio ruolo. Se si autolimita all’esercizio di un voto ogni tot di anni o al manifestare in piazza, al di là di obiettivi comuni e senza l’interesse ad intessere rapporti con le forze politiche e/o a diventare a propria volta una forza politica, allora diventa un esercizio di stile che ha un che di auto-assolutorio/consolatorio. Ma non è questo, per me, ciò che intendo come politica.
  3. Serve reciprocità: è intollerabile e anche abbastanza stucchevole che emerga sempre la solita retorica della piazza contro il palazzo. Una retorica populista per definizione. Come se ciò che si sviluppa spontaneamente abbia le soluzione di per sé, e di per sé sia qualche cosa di puro e pulito in contrapposizione a ciò che è istituzionalizzato. Non è così: i partiti sono strutture d’intermediazione fondamentali, che concorrono nel definire la qualità della democrazia di un paese. La partecipazione politica non deve necessariamente concludersi in un attivismo partitico, ma la domanda che pongo è: che senso hanno manifestazione di piazza, movimenti politici generati spontaneamente come nel caso delle sardine o coordinati da associazioni/enti già stabiliti come possono essere Arci o Anpi, per citarne due famosi, se poi non c’è uno scopo politico atto a cambiare l’assetto politico-istituzionale non gradito? In altre parole, che senso ha quell’attivismo politico (badate: è politico, anche se non è partitico) se non è finalizzato ad incanalare il consenso, indirizzarlo verso forze politiche che possono poi interpretare quelle istanze o che se anche non possono, vengono poi costrette, da questo punto di vista, a farlo?
  4. non può essere quindi una discussione tra sardine sì o sardine no. Ma di come queste energie vengono incanalate, messe in contatto, coordinate al fine di raggiungere lo scopo che movimenti e partiti, oggi, si sono dati: sconfiggere le destre, il populismo xenofobo, e l’avanzata di personaggi come Salvini e Meloni.
  5. Diventa superficiale, e putroppo anche poco aderente alla realtà, il consolarsi col fatto di vedere mobilitazioni di piazza, quando gli esiti elettorali dalle europee 2019 alle varie elezioni locali avute fino a poche settimane fa, hanno dimostrato un trend netto di crescita delle destre e di affermazione di leadership come quelle di Meloni e Salvini. L’ultimo sondaggio disponibile, che è certo un sondaggio quindi va preso con le pinze, ci dice che sardine o non sardine, FdI e Lega crescono, mentre scendono tutti gli altri. Significa che la risposta non c’è ancora, per milioni di italiane ed italiani che ora pensano sia meglio votare quei partiti, piuttosto che altri. E qui si torna al punto uno, alla domanda delle domande: cosa possiamo fare, e come, per convincere a) chi non vota a venire a votare e votare per partiti che si oppongono alla retorica delle destre; b) chi già vota a destra (sempre di più) a non farlo. Con queste elettrici e questi elettori, dovremmo pure confrontarci (tolti coloro che, a prescindere votano a destra perché sono genuinamente convinti di quell’ideologia, ovviamente).

In conclusione, non credo possa essere vinta una battaglia se combattuta in solitaria e in modo sparso. Servono coordinamento, organizzazione, impegno costante e reciprocità. Riconoscersi come interlocutori legittimi: come movimenti dal basso, e come partiti istituzionalizzati. Se non emerge chiaramente lo scopo politico ultimo, e poi le idee ad esso associate, non c’è modo né di costruire l’alternativa politica alle destre, né di conquistare la fiducia delle persone per andare a vincere nelle urne, che è il momento cruciale su cui le forze politiche devono misurarsi.

Esiste una tendenza quasi patologica alla moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei partiti/movimenti. Questo non rafforza, ma indebolisce. E alla luce dei dati recenti, non possiamo essere ottimisti: quindi, la mia personale visione è anche quella politica. Servono dialogo, reciprocità, rispetto e un comune impegno affinché le parole diventino fatti. Affinché l’energia di quelle piazze con la loro legittima voglia di esprimersi e di portare istanze, trovi accoglienza nelle articolazioni partitiche e nelle istituzioni. Se in cooperazione o in competizione tra liste, all’interno di una coalizione, non si può ora sapere: tutto è lecito, tutto è possibile. Ma è anche ovvio che per gli esiti,  la responsabilità è necessariamente condivisa.

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