L’intesa personale c’è, e ha resistito il cambio di maggioranza. Ma sui dossier che scottano, a cominciare Cina e 5G, potrebbe non bastare. Questo il bilancio che Dario Cristiani, Fellow dello Iai (Istituto affari internazionali) e del Gmf (German Marshall Fund), traccia del vertice fra Donald Trump e Giuseppe Conte a margine del summit Nato di Londra.
Cristiani, per Trump Conte è un “uomo popolare”. Che vorrà dire?
Credo sia anzitutto il segnale di un buon rapporto fra i due leader che è resistito al passaggio fra i due governi. Probabilmente la vocazione più europeista di questo governo è meno ben vista nei circoli trumpiani rispetto alla vecchia logica gialloverde, ma questo non ha incrinato il piano personale.
Cosa insegna il vertice sui rapporti bilaterali?
L’Italia è stato uno dei Paesi che ha avuto un bilaterale con gli Stati Uniti a margine del summit, a riprova di una relazione che resta solida e della considerazione che gli americani hanno per Roma. Nonostante ciò, alcuni recenti sviluppi rischiano di creare qualche frizione.
Partiamo dalla Cina. Basteranno le rassicurazioni di Conte?
La diplomazia italiana, dopo marzo, ha fatto un lavoro enorme e non sempre riconosciuto a livello di opinione pubblica nazionale, per spiegare correttamente agli americani la logica dell’adesione italiana alla Bri. Gli americani hanno compreso questa logica e i toni sono drasticamente cambiati rispetto agli allarmismi di marzo.
Perché?
Il supporto italiano, promosso dal precedente ministro degli Esteri Moavero alla Farnesina, dell’iniziativa giapponese sulla regione dell’Indo Pacifico e l’attivismo bilaterale con Tokyo nei mesi post Memorandum con la Cina ha contribuito a calmierare le tensioni, insieme al golden power sul 5G e un’attitudine diversa su questo dossier, passaggio che era stato apprezzato molto da Washington.
Eppure Conte sul 5G tiene la barra dritta.
C’è stata solo una piccola incomprensione diplomatica prima dell’incontro. Conte ha negato di aver parlato di 5G, Trump ha detto il contrario, dicendo che l’Italia si è impegnata a tener fuori le aziende cinesi. Un off topic che suona come un messaggio per il prossimo futuro.
Rimangono punti di frizione?
Più d’uno. L’assenza di Di Maio dal G20 dei ministri degli esteri in Giappone, ad esempio, non è passata inosservata, e ha destato più di una perplessità sia a Tokyo che a Washington. L’invocazione della “non-ingerenza” rispetto alle proteste di Hong Kong, alla luce del supporto sempre più vocale che il Presidente americano ha offerto ai protestanti e alcune posizioni sui campi di detenzione cinesi nello Xinjiang di intellettuali vicini ai Cinque Stelle continuano a seminare dubbi sulle reali intenzioni dell’Italia rispetto ad un paese che gli Stati Uniti percepiscono come un rivale sistemico.
Capitolo due: i dazi. Il premier italiano si è mostrato ottimista. Ci sono buone ragioni per esserlo?
Conte ha negato che vi sia il rischio di dazi per le imprese italiane, e ha sottolineato come l’Italia resti un paese sovrano nelle scelte di bilancio e politica economica. È altresì vero che l’America si avvia ad entrare in un intenso anno elettorale e Trump non vuole, e non può, mostrarsi troppo accondiscendente su un dossier per lui fondamentale.
Nessuno sconto, quindi.
Trump non arretrerà sul principio di reciprocità, che per lui è quasi un’ossessione. È un principio che non deve venire meno neanche a fronte dei giganti hi-tech europei con cui Trump ha avuto più di qualche problema.
Fra le righe c’è un messaggio alla base elettorale negli Usa, giusto?
Esatto, può essere sintetizzato così: “Finché ci sono io, il business americano viene prima di tutto”. Il messaggio trasversale e trova orecchie sensibili alle latitudini più disparate, dalla Silicon Valley a Detroit, dall’Ohio a Wall Street.
A giudicare dal faccia a faccia gli Stati Uniti non cederanno neanche sulla richiesta di aumentare le spese nella Difesa.
La logica è la stessa che sottende le pressioni commerciali. Trump sa che i Paesi europei raggiungeranno il 2% di Pil in investimenti per la Difesa nel medio-lungo periodo ma non ha alcuna intenzione di mollare la presa. L’Italia – spendendo intorno al’1.3% del Pil – sentirà questa pressione nei prossimi mesi.
Infine la Libia. Il vertice fra Germania, Francia, Regno Unito e Turchia senza l’Italia ha fatto rumore…
Conte ha negato che questo incontro fosse sulla Libia, sostenendo che fosse invece sulla Siria e che discutere di Libia senza Italia sarebbe “impensabile”. L’Italia, chiaramente, resta un attore importante in Libia ma è evidente a tutti come negli ultimi mesi l’influenza italiana sul terreno sia diminuita significativamente. La conferenza di Palermo – lodevole nelle intenzioni, molto meno nella realizzazione – scegliendo l’inclusione di tutti gli attori libici ha sortito l’effetto opposto, alienando le forze della Tripolitania e lasciando inalterate le pessime relazioni dell’Italia con i gruppi legati ad Haftar nell’Est del Paese.
Continui.
Il recente tour diplomatico del ministro degli Interni Libico, Fathi Bashagha, il vero “attore politico fondamentale” del Gna in questi mesi, è un messaggio chiaro su quali sono le capitali che il Gna considera fondamentali rispetto alla sua sopravvivenza: Washington, Ankara, Doha. La Turchia, nonostante un impegno militare che nelle ultime settimane si è lievemente attenuato, ha rappresentato l’ancora di salvezza del Gna: senza il supporto militare turco organizzato dalla seconda metà di aprile in poi, Haftar avrebbe probabilmente conquistato Tripoli mesi fa.
E gli Stati Uniti?
Dopo le notizie su una crescita della presenza russa in Libia tramite gli uomini della Wagner hanno mostrato un atteggiamento più assertivo in supporto del Gna. Le notizie dal terreno sostengono tuttavia che Washington mantenga canali ben più che aperti con Haftar che, per anni, è stato un asset americano.