Una riforma delle pensioni, peraltro blanda e molto gradualistica, sta infiammando la Francia, mentre in Italia tutto o quasi tace. Dopo la campagna nei confronti dei così detti “pensionati d’oro” fomentata dal Movimento 5 Stelle, una campagna ancora più severa si sta preparando nei confronti delle così dette “pensioni di reversibilità”. Secondo quanto si mormora nei corridoi del ministero del Lavoro e dell’Inps, in futuro non lontano, ne potrebbero usufruire solo vedove, vedovi ed orfani il cui reddito è certificato dall’Isee (Indicatore Situazione Economica Equivalente) come molto basso. Ciò per meglio consentire di elargire il così detto “reddito di cittadinanza”.
Un’operazione verità sulla situazione pensionistica italiana è stata fatta al Cnel da Pietro Gonella e Stefano Biasioli dell’Associazione di Promozione Sociale Leonida sulla base delle analisi nell’ultimo rapporto del Centro Studi Itinerari Previdenziale. È utile riportarne i punti salienti.
Nel 2018 il rapporto occupati/pensionati ha raggiunto il valore più alto degli ultimi 22 anni: 1,45 contro 1,35 del 2013. La spesa pensionistica effettiva al netto dei trasferimenti assistenziali ha segnato nell’ultimo quinquennio un incremento annuale dello 0,7%. L’effetto combinato determinato da aumento aspettative di vita, bassa natalità e riduzione dei flussi migratori netti induce infatti, per il futuro, un ulteriore processo di invecchiamento (processo che già oggi è al disopra della media europea). Ma le stime quantitative differiscono.
Il rapporto di Itinerari Previdenziali, che utilizza la metodica del disciolto Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, valuta questo rapporto, al netto della componente assistenziale (Gias), al 12,87% per il 2017, con una media a 10 anni attorno al 12,6%. Nella relazione annuale l’Inps per l’anno 2018 specifica che la spesa pensionistica al netto della componente assistenziale (Gias) è pari al 12,01% mentre al lordo dell’assistenza è pari al 15,12%. La Ragioneria generale dello Stato nel suo rapporto annuale posiziona il rapporto tra spesa previdenziale e Pil al 15,5% ma comprende tutta la componente Gias (circa 2 per cento del Pil), le pensioni e gli assegni sociali che sono assistenza pura e le pensioni delle Regioni e degli organi costituzionali.
Infine Istat calcola il rapporto che comunica a Eurostat nella misura del 16,1% (dato 2016) che considera anche tutte le prestazioni assistenziali, quelle erogate da sistemi privati, le invalidità civili, le indennità di accompagnamento, le pensioni indennitarie erogate dall’Inail e altre prestazioni. Peraltro è la stessa Istat a chiarire che non si tratta di pensioni.
È stato proprio il dato comunicato da Istat la causa scatenante della Riforma Monti-Fornero del 2011, poiché all’epoca la spesa per pensioni italiana nella versione Istat era superiore al 16,5%, mentre la media europea era inferiore al 13%; era quindi ovvio che la Commissione europea chiedesse come manovra principale la riduzione di almeno 2,5 punti percentuali del rapporto, misura realizzata facendo leva prevalentemente sui lavoratori che già versano elevati contributi sociali al sistema pensionistico con finalità previdenziali; per contro i beneficiari “assistiti”, cioè che non hanno totalmente o parzialmente contribuzione, si sono visti aumentare le loro prestazioni, con un relativo incremento dello squilibrio finanziato dalla fiscalità generale.
Il problema italiano – evidenziano Gonella e Biasioli – non riguarda perciò le pensioni di natura previdenziale, il cui rapporto tra contributi pagati dalla produzione (lavoratori e datori di lavoro) e prestazioni è in equilibrio (addirittura in attivo se si considera la spesa pensionistica al netto delle imposte, pur considerando che la contribuzione del datore di lavoro e del lavoratore alla previdenza sociale non sono assoggettate a imposizione fiscale). L’Italia è uno dei pochi Paesi ad avere sia un aggancio automatico tra aumento dell’aspettativa di vita ed età di pensionamento che coefficienti di trasformazione che si riducono automaticamente all’incremento delle stesse aspettative di vita. Il nodo è la spesa assistenziale che è aumentata in questi ultimi 11 anni di ben 43 miliardi l’anno in modo strutturale, riflettendosi negativamente sul debito pubblico
È necessario rivedere i sistemi contabili e le classificazioni della spesa sociale e di quella pensionistica, in particolare poiché sono proprio i risultati contabili che determinano le decisioni politiche e le valutazioni europee. Come si è visto sopra la spesa pensionistica calcolata dalle differenti istituzioni varia di molto e, salvo per Inps e Itinerari Previdenziali, non viene scomposta in spesa pensionistica al netto dell’assistenza; ancor di più Istat inserisce una quantità di voci che non sono pensioni in senso stretto. Tuttavia il dato Istat è quello che conta in sede europea ed essendo molto alto crea all’Italia parecchi problemi.
È necessario fare l'”anagrafe generale dell’assistenza”, cioè la banca dati sull’assistenza dove confluiscono per codice e per nucleo familiare tutte le prestazioni erogate dallo Stato, dagli enti pubblici e dagli enti locali cui associare le prestazioni offerte dal settore privato, al fine di conoscere correttamente e completamente quanto ogni soggetto e ogni nucleo familiare percepisce dai vari soggetti erogatori e, come già avvenuto/riscontrato per il reddito di cittadinanza, non sarebbe da escludere un risparmio sui circa 130 miliardi di spesa a carico della fiscalità generale.
Questi dati non solo dimostrano come la spesa previdenziale italiana non è fuori linea rispetto alla media dei Paesi Ue ed Ocse ma sono una risposta eloquente a chi vorrebbe ancora ridurre le prestazioni per vedove, vedovi ed orfani. Sono dati importanti anche ai fini delle valutazioni che farà la Corte Costituzionale sugli articoli della Legge di Bilancio 2019 che prevedono il raffreddamento (ed in numerosi casi il congelamento) dell’adeguamento dei trattamenti all’andamento dell’indice dei prezzi al consumo e che pongono sulle spalle di circa 30.000 pensionati l’onere di finanziare misure come il reddito di cittadinanza le cui prime valutazioni lasciano perplessi.