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Vi racconto le sfide dell’intelligence nel terzo millennio. L’analisi di Alberto Pagani

Di Alberto Pagani

Da sempre tutti gli Stati necessitano della raccolta, dell’analisi e dell’interpretazione di notizie, per ricavare informazioni utili per la politica, per garantire la sicurezza dei cittadini, per contrastare nazioni ostili o fenomeni minacciosi.

In Italia però l’intelligence è stata per anni una materia di cui si sono occupati pochi specialisti del settore e molti giornalisti che erano alla ricerca delle spiegazioni dei misteri e delle pagine più buie della storia recente del nostro Paese. Ne sono nate teorie di complotti e cospirazioni, di trame oscure, a volte anche molto fantasiose, che hanno gettato un’ombra inquietante sulla nostra storia e dato all’opinione pubblica un’immagine distorta dei “servizi segreti”. La cosiddetta “strategia della tensione” ebbe inizio cinquant’anni fa, con la strage di Piazza Fontana. Nonostante la responsabilità dell’attentato sia stata attribuita ai militanti fascisti di “Ordine Nuovo”, si è parlato di strage di Stato perché furono condannati per depistaggio alti ufficiali del Sid, e l’allora governo Rumor aveva opposto il segreto di Stato alla richiesta di informazioni della magistratura.

Difficile comprendere ed inquadrare queste vicende senza contestualizzarle nella storia di un Paese sconfitto nelle Seconda Guerra Mondiale. Il nostro Paese vive questa situazione in una condizione molto particolare.  Si trova ad essere un Paese di frontiera su quella che viene definita “la linea di Gorizia” ma lo è ancora di più sul terreno geopolitico. Impegnato nella ricostruzione economica, politica e sociale per superare le macerie lasciate da una guerra in cui siamo entrati  dalla parte sbagliata, spinti da un consenso politicamente organizzato e dalla quale siamo usciti  riscattando il valore supremo della libertà e della democrazia.

La nostra Costituzione segna un punto di cesura incancellabile con la dittatura. Quella però che deve misurarsi con la guerra fredda e la trasformazione del Paese è una democrazia fragile che riesce a superare questa difficile prova per un profondo senso di responsabilità che tiene insieme la maggioranza e l’opposizione di sinistra rappresentata dal più forte Partito comunista dell’Europa occidentale, dando vita a quello che verrà definito “l’arco costituzionale”. Un valore politico che consente alla nostra diplomazia di superare più volte i confini della guerra fredda e svolgere una politica estera basata su un dialogo tanto difficile quanto prezioso.

Per tutte queste ragioni già nell’art. 11 della Costituzione i costituenti scrissero che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Cosa significava questa cessione di sovranità prevista dai costituenti? In quale contesto internazionale ricadeva? È necessario rispondere a queste domande ed inquadrare le vicende dentro quella che è stata nella seconda metà del novecento la Guerra Fredda tra l’Occidente e l’Unione Sovietica, per capire ed anche per esprimere un giudizio storico.

Con l’art. 11 i Costituenti ripudiavano “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ma al tempo stesso prendevano lucidamente atto del mondo nuovo e della nuova epoca in cui si entrava. “Da Stettino sul Baltico fino a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente”, aveva detto due anni prima  Winston Churchill, e in quel contesto il nostro sarebbe stato necessariamente un Paese a sovranità limitata. La limitazione era data dal fatto oggettivo, e dalla necessità storica, di dover compiere una scelta di campo. Infatti la Costituzione entrò in vigore nel ’48 e l’anno successivo l’Italia entrò nel Patto Atlantico e nell’organizzazione militare della Nato. Inizialmente l’Alleanza era composta da dieci Paesi europei e “aperta” agli Usa e al Canada, ma fu subito a tutti chiaro che l’organizzazione, creata a Washington nell’aprile ’49, non era “aperta” agli Usa, ma era in realtà guidata dagli americani, per garantire la sicurezza della “Regione dell’Atlantico settentrionale” dalla minaccia rappresentata dall’Urss, nell’ambito dell’ormai dichiarata Guerra Fredda.

L’adesione al Patto Atlantico, dunque, comportava la concreta possibilità di essere coinvolti in una guerra e aveva inevitabili ricadute sulla possibilità stessa per lo Stato italiano di sviluppare una politica estera in piena autonomia. In quello specifico contesto storico, un Paese condannato dalla geografia ad essere sul confine tra i due blocchi, in una posizione strategica estremamente rilevante sul piano militare, e caratterizzato dalla rilevanza democratica del più forte partito comunista dell’occidente, è ovvio che fosse attenzionato in modo molto particolare. Racconta molto bene alcuni retroscena delle vicende politiche italiane tra il 1948 ed il ‘58, William Colby, che in quegli anni era a capo dell’ufficio politico della Cia in Italia e successivamente ne divenne direttore generale. Emerge dalle pagine della sua autobiografia il quadro di un Paese la cui stabilità politica è fortemente sostenuta dagli Stati Uniti, preoccupati di uno scivolamento di un alleato strategico verso il blocco comunista, che avrebbe comportato un rischio per la sicurezza dell’intera Alleanza Atlantica, e dell’Europa.

L’adesione alla Nato comportava dunque, di conseguenza, anche impegni relativi al funzionamento di delicati settori istituzionali, col fine dichiarato di “contenere il comunismo”, quali la ricostituzione nel ’49, in concomitanza con l’adesione all’Alleanza, del Servizio segreto militare (Sifar), posto alle dirette dipendenze della Cia. Inoltre il “Piano Demagnetize”, sulle modalità illegali di conduzione della guerra psicologica “per la riduzione del comunismo in Italia”, e infine la costituzione di Gladio, che era la struttura Stay-behind NATO, omologa a quelle create in altri Paesi europei, che fu concordata direttamente tra il Sifar e l’Amministrazione americana, e che è stata poi taciuta al Parlamento e al Paese per tutto il tempo in cui operò, sino alla fine degli anni ottanta.

In realtà il timore dello scivolamento per via democratica dell’Italia verso il blocco sovietico era decisamente sovrastimato, tanto che il segretario del Pci Enrico Berlinguer, intendendo accedere al governo della Repubblica, nel giugno ’76 ritenne “di poter procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento” rimanendo sotto l’ombrello della Nato, sancendo così una rottura profonda e definitiva con il regime sovietico, che gli costò anche un attentato alla vita, ad opera dei servizi bulgari, durante una visita a Sofia. Tuttavia questo specifico contesto storico e politico italiano fece sì che si sviluppasse nel nostro Paese un solido ed efficace Servizio di controspionaggio e di sicurezza interna, ma una debole capacità autonoma di intelligence nella dimensione internazionale.

Solamente dopo il 1989, quando il crollo del muro di Berlino ha segnato la fine della divisione del mondo nei due blocchi geopolitici contrapposti, il sistema di intelligence nazionale ha subito un cambiamento veramente significativo. Nel nuovo scenario internazionale la prospettiva dell’interesse nazionale è cambiata, e con essa si sono modificate le minacce che gravano sul Paese.

La svolta degli anni novanta è stata profonda ed ha segnato in modo ineludibile il mutamento di un’epoca, con la caduta dei “muri” (quelli reali, della politica estera, e quelli mentali, della politica interna), la dissoluzione dell’Urss, la fine del comunismo reale in Europa, la riunificazione della Germania. Gli Usa avevano vinto una battaglia durata mezzo secolo (non la Guerra Fredda, che non è mai finita), erano rimasti l’unica superpotenza militare e la subalternità delle Nazioni Unite alla politica americana era ormai un dato di fatto, come la prima guerra del Golfo avrebbe da subito confermato. Quanto alla Nato, l’alleanza era diventata operativa per la prima volta nel cuore stesso dell’Europa, per porre fine alla guerra dei nazionalismi nella ex Jugoslavia. Inevitabilmente con il muro è crollato anche il paradigma che modellava le agenzie di intelligence mondiali, perché era finita “l’elegante semplicità” del mondo bipolare, ed era cominciato un tempo più complesso, multipolare, caotico, a volte indecifrabile. Prima del 1989 era difficile che gli interessi nazionali interni al blocco Atlantico potessero non essere convergenti, se non coincidenti. Con la metamorfosi del mondo, nell’età del caos che ora abitiamo, ciò che era bipolare diventa multipolare, e poi a-polare, privo di veri punti fissi di riferimento.

Come gli altri Paesi per tutelare l’interesse nazionale l’Italia può trovarsi competere con alleati europei ed atlantici e inoltre, con l’arrivo del nuovo millennio, c’è una seconda fase di passaggio, che si apre l’11 settembre 2001, e segna una rottura di significato nel lavoro dell’intelligence. Con il passaggio di fase del terrorismo jihadista dalla dimensione specifica e locale a quella indistinta e globale saltano il concetto di localizzazione della minaccia e del conflitto ed il principio classico della deterrenza. Non è un caso se anche in questi anni matura l’esigenza, in Italia, di dare vita ad una riforma organica del sistema di intelligence, che verrà realizzata attraverso una delle leggio più importanti approvate nella stroia della nostra sicurezza nazionale, la 124 del 2007, da cui prenderà vita l’attuale assetto dell’intelligence italiana.

Il nuovo nemico è militarmente più debole delle superpotenze atomiche occidentali, ma potrebbe essere ovunque e conduce una guerra asimmetrica e terroristica. Questo cambia il paradigma di difesa, e quindi deve modificare anche il concetto, gli strumenti ed i modelli organizzativi della Difesa. Non basta dotarsi di un cacciabombardiere con capacità stealth come l’F35 per sconfiggere Daesh, e la deterrenza nucleare non intimorisce questo nuovo nemico, che può facilmente nascondersi e mimetizzarsi tra di noi. Non ci si difende in astratto, ma da un pericolo concreto e reale, che si deve quindi osservare, conoscere, comprendere, e se possibile prevedere. E’ difficile perché la nuova minaccia è liquida e puntiforme, ma è anche pervasiva e diffusa. E’ una minaccia dinamica, in continua mutazione, che tende ad ibridarsi in forme sempre diverse e ad agire in maniera caotica ed imprevedibile. In realtà tutte le principali minacce della contemporaneità sono così, non solamente il terrorismo jihadista. Prendiamo il campo della cybersecurity: nel cyberspazio si giocherà nei prossimi decenni una partita fondamentale per la sicurezza nel mondo. Si annida nel cyberspazio il rischio di collasso di sistemi economici, sociali e politico istituzionali.

Persino la tenuta dei sistemi democratici oggi è minacciata più dalle nuove e straordinarie opportunità offerte dalla combinazione di big data, neuroscienze ed intelligenza artificiale, che dalla corsa agli armamenti dei Paesi non democratici. Il caso di Cambridge Analytica è solo la punta di un iceberg, il cui corpo principale è rimasto immerso sotto la superfice delle notizie giornalistiche, occultato e nascosto agli occhi ed alla consapevolezza popolare, ma rappresenta una minaccia reale alla sicurezza nazionale di tutte le democrazie liberali. Le bugie sono nate con l’uomo, e sono sempre esistite nel campo della disinformazione, delle PsyOps e della guerra dell’informazione, ma le cosiddette fake news che infestano il web 2.0 sono l’espressione di una possibilità sino ad ora inedita di manipolare l’opinione attraverso queste nuove  tecnologie,  che potenzialmente sono equiparabili ad armi, nelle mani di eventuali potenze statuali ostili. E come tristemente ci insegna la storia non esistono tecnologie ed armi che, benché immature, una volta rese disponibili non siano poi state usate. Persino le armi nucleari sono state sperimentate prima di conoscerne tutti i possibili effetti sugli esseri umani. Dunque sicurezza, libertà ed interesse nazionale non sono termini in conflitto, ma sono legati tra loro ed interdipendenti.

A suo modo l’intelligence è una materia specialistica, ma non è un problema degli specialisti, è un problema di tutti. Lo stessa considerazione si potrebbe declinare nello specifico dell’intelligence economica, in parte legata alla questione della cybersecurity, che riguarda la protezione di aziende, marchi, brevetti, progetti, ed asset strategici per il Paese, come le infrastrutture materiali ed immateriali. Anche questa è una grande questione politica di carattere generale, e non solo una materia di interesse specifico del Mise, del Mef o della Guardia di Finanza. Vi è infine una questione strategica e geopolitica di rilevanza centrale per il futuro dell’Italia. Il nostro Paese, che è una media potenza regionale collocata nel cuore del quadrante Mediterraneo, cioè nell’occhio del ciclone, dove vi è una paradossale calma apparente, tra il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Europa, è chiamato a svolgere un suo compito autonomo, specifico e specializzato.

L’ambito naturale di azione per una media potenza regionale è il teatro geopolitico e strategico in cui è inserita, che sono il mare e le terre che gli stanno intorno. L’Italia deve saper guardare al mondo, ma per poterlo fare deve specializzarsi nel campo che può conoscere meglio, dove può operare meglio, e da cui può ottenere di più. Questo è la seconda grande questione politica generale, e non specialistica, perché attiene all’interesse nazionale come nessun altro tema. Qui la sfida per la politica si gioca nella capacità di orientare le agenzie di intelligence nazionali principalmente su tre nodi strategici. Il primo è la stabilizzazione del Mediterraneo e la lotta al terrorismo.

La politica estera italiana, e perciò anche l’intelligence nazionale, devono saper essere protagoniste nei quadranti geopolitici di tutta l’area mediterraneo-Mediorientale. Naturalmente deve saper leggere e fronteggiare anche le potenziali minacce che derivano da questi fronti per la nostra sicurezza interna, economica, energetica, ed anche civile e sociale. L’intelligence, in questa ottica, è quindi uno strumento della democrazia. Fino alla fine del secolo scorso eravamo abituati ad immaginare la democrazia come un modello vincente, espansivo ed universale. Purtroppo non lo è. L’errore di fondo è stato illudersi che la democrazia,  avrebbe progressivamente conquistato il mondo e sarebbe diventata il modello unico di organizzare la politica e la società, accettato e preferito da tutti

La democrazia occidentale, nata alla fine del 1700 con la Rivoluzioni Inglese, Americana e Francese, è stata una rara eccezione nella storia dell’umanità, dominata da modelli di organizzazione sociali di tipo autoritario ed illiberale. L’errore principale è stato credere ingenuamente che vi fosse nel mondo una continuità naturale tra capitalismo, libertà e democrazia che avrebbe prodotto in modo automatico ed ineluttabile un’evoluzione democratica del mondo. Come se l’espansione dell’interdipendenza su scala globale del modo di produzione capitalistico portasse necessariamente con sé una corrispondente sovrastruttura di organizzazione sociale di tipo democratico e liberale. Purtroppo non è così. Nuovi giganti si sono affacciati sulla scena nel terzo millennio. Sono protagonisti che hanno conquistato sul campo una centralità economica, e quindi anche politica. Giganti come la Cina, che ha scelto un modello economico sostanzialmente capitalista, seppure con una centralità dell’intervento statale nell’economia, senza adottare un’organizzazione della politica e della società di tipo democratico. Libertà economica e libertà personale non sono più necessariamente correlati, i nuovi regimi autoritari dimostrano che può essere garantita efficacemente la libertà di arricchirsi proprio attraverso la limitazione di tutte le altre libertà. In questo nuovo mondo di oggi dunque non è più certo o scontato che le democrazie liberali possano resistere e sopravvivere agli attacchi che provengono sia dal loro interno che dall’esterno. Le democrazie sono fatte di regole che garantiscono le libertà attraverso l’equilibrio tra i poteri che limitano gli abusi. La democrazia si regge su due principi: uno è la sovranità popolare che si esprime con il voto e l’altro è lo Stato di diritto nel quale la legge è uguale per tutti. In democrazia anche il popolo è sottoposto alla legge, perché la democrazia si deve difendere anche da una eventuale maggioranza di persone che volesse distruggere tutti i limiti che le istituzioni pongono all’esercizio del suo potere.

Già a metà dell’ottocento Alexis de Toqueville teorizzava che la “la giustizia costituzionale si configura come uno strumento posto a difesa delle minoranze nei confronti delle manifestazioni di volontà, contrarie alla costituzione, della maggioranza parlamentare, come argine alla nascita di una dittatura della maggioranza.

Nell’era in cui l’intelligence di una grande potenza straniera potrebbe anche avvalersi di nuove e sofisticate tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica per condizionare l’espressione democratica del voto popolare nelle democrazie liberali (le inchieste aperte sulle ipotetiche operazioni di influenza russa sulle elezioni presidenziali americane e sul referendum brexit britannico ne sono esempi inquietanti) si pongono forse nuove sfide alle agenzie di intelligence dei Paesi democratici. E’ infatti compito del sistema di intelligence nazionale proteggere la sicurezza della Repubblica (non solo dello Stato, c’è scritto nella legge 124/2007, ma della Repubblica, quindi anche della Costituzione) da possibili aggressioni, spinte eversive o minacce, nonché di fornire agli organi istituzionali di Governo tutte le informazioni necessarie a tutelare la società nazionale, assicurandone la democrazia, la sicurezza e lo sviluppo.

Oggi, a trent’anni dal crollo del muro di Berlino, quella difesa della democrazia che le agenzie di intelligence, nate settant’anni fa insieme la NATO, declinavano come difesa del “mondo libero” dal pericolo comunista va rivista ed aggiornata alle nuove sfide, ma mantiene inalterata la sua ragione di fondo.

Nel mondo contemporaneo un’intelligence forte e reattiva, capace di fronteggiare le sfide della globalizzazione, di interpretare i fenomeni nuovi, di prevederne gli sviluppi, di individuare tempestivamente le minacce e di contrastarle, può essere essenziale per difendere la democrazia, renderla più forte e più credibile.

 


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