Caro Stella,
confesso di provare una certa difficoltà nel dover ritornare sull’annosa questione della pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti pubblici, su cui la Corte costituzionale si è espressa nel febbraio del 2019 con una lunga e articolata sentenza. La mia difficoltà e, aggiungo, il mio disagio, trovano origine da due ordini di motivi, che tenterò brevemente di spiegare e che spero voglia avere la pazienza di leggere.
Il primo investe il merito della questione, di cui Lei tratta nel Suo articolo sul Corriere della Sera (“Se trasparenza è sinonimo di voyeurismo”, domenica 12 gennaio) e su cui mi sento, pur dopo la pronuncia della Consulta, obbligato ad intervenire per aggiungere qualche dettaglio.
Senza annoiare nessuno con noiosi tecnicismi, può essere utile ricordare che la decisione di ricorrere al TAR (quale audacia, invero!) nasceva dall’intimo convincimento che obbligare i dirigenti pubblici a rendere conoscibili sui siti istituzionali delle amministrazioni di appartenenza il proprio, personale patrimonio, nonché quello del coniuge e dei loro parenti entro il secondo grado, analogamente a quanto disposto per gli eletti della politica, fosse improprio, inutile e illegittimo. Mi sembrava allora, e ne sono convinto oggi, che la disposizione fosse figlia di una certa modaiola morbosità, alimentata da accese campagne contro tutto quel che sapeva di pubblico, e che fosse lunare dover dimostrare all’intera platea degli internauti che non si fosse, a prescindere, corrotti e malfattori. Ebbene, la Corte costituzionale ha stabilito, senza peli sulla lingua, che l’obbligo vale per la politica, il cui legame fiduciario con i cittadini che hanno espresso un voto legittima un penetrante controllo di questo tipo, ma non regge – è incostituzionale – per chi sia un professionista dell’odiata burocrazia, vincitore di concorso pubblico. Esattamente quel che, con le armi del buon senso, si sosteneva mesi addietro, esponendosi a sfottò e ad accuse di tramare nelle segrete stanze dei ministeri per celare agli occhi del mondo, novelli Arpagoni, mucchi di luccicanti monete d’oro ottenute chissà come.
Detto questo, confesso che il mio disagio ed il mio imbarazzo sono, altresì, strettamente legati al tono del Suo articolo. Voglio premettere, senza slancio alcuno di captatio benevolentiae, di seguirLa con attenzione e apprezzamento, sia quando critica, non infrequentemente con più di una ragione, l’azione politica e pubblica, sia, ancor più, quando pone all’attenzione del lettore le tante mancanze nell’assicurare la piena efficacia dei diritti delle persone più fragili, in particolare delle persone con disabilità.
Stavolta, tuttavia, l’approccio alla questione, così come utilizzato nel pezzo, mi è sembrato parziale, ingiusto e financo inutilmente cattivo. Dipingere i burocrati che esultano sui social network come si trattasse “di giarrettiere o baby-doll” (ma in che senso, scusi?) o tratteggiare con sufficienza chi ha esercitato il suo diritto di ricorrere al giudice amministrativo perché riteneva lesa una tal situazione soggettiva non rende giustizia al Suo lavoro. E se dispiace leggere addirittura di “rivolta” di chi riteneva erronee quelle norme (noi paludati burocrati possiamo al massimo inarcare, come il vulcaniano Signor Spock, un sopracciglio), si resta francamente basiti quando si gettano disinvoltamente nel mucchio, con una certa malizia, “gli arricchimenti spropositati di burocrati d’oro come Duilio Poggiolini”. Al netto di ogni verve polemica, sempre legittima, nel momento in cui si venga anche solo lontanamente accomunati a gente di tal fatta mancano, francamente, le parole.
Veda, non ho certamente la pretesa di parlare per le migliaia di colleghe e colleghi che, come me, servono lo Stato e sono ben consapevole – ne ho scritto a iosa – dei tanti, tantissimi problemi che affliggono le nostra macchina pubblica e la stessa categoria dei dirigenti. E non devo neppure convincerLa di alcunché. Tuttavia, credo occorra recuperare un livello minimale di rispetto e fiducia nella buona fede delle altrui posizioni che, certamente, possono e devono essere soggette a severo scrutinio, ma che si spera vengano almeno intercettate e digerite nella loro propria dignità, pur nella diversità di opinioni e di interpretazioni della realtà. Perché, mi creda, chi fa il proprio dovere, avendo scelto di lavorare per la comunità nazionale, è sinceramente stufo di esser preso a pesci in faccia. A prescindere, come avrebbe detto Qualcuno.
Allora, caro Stella, venga a trovarmi in ufficio, a Roma. Sarei lieto di continuare questa chiacchierata. Entri in un Ministero, la accompagno io. Parli con chi ha vinto un concorso e ha investito nello Stato. Veda e giudichi con i suoi occhi, chissà che possa cambiare idea. Magari in peggio, ma guardandoci in faccia, perlomeno.