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Trump vs Greta: il gigante cattivo e la bambina? Non scherziamo. Il commento di Clini

La cronaca di Davos mette in evidenza il confronto tra Greta e Trump. Una “cronaca facile” che mette in risalto l’arroganza dell’uomo più potente del mondo contro l’annuncio disarmato della catastrofe climatica da parte della piccola Greta. Troppo facile.

Il dato rilevante, che va oltre la cronaca, è la presa di posizione netta del presidente Usa contro gli allarmi sul cambiamento climatico e sulla sostanziale inutilità delle misure per de-carbonizzare l’economia. In questo modo Trump smentisce i dati e le previsioni delle Agenzie governative degli Usa, in particolare la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) che anche recentemente ha messo in evidenza la correlazione tra l’aumento della concentrazione di CO2 e quello della temperatura media del pianeta : è forse la Noaa un profeta di sventure ? La posizione di Trump è “eccentrica” nel contesto internazionale.

Non tiene in considerazione l’allarme delle istituzioni finanziarie internazionali che richiamano l’attenzione sulla previsione “attendibile” di danni economici disastrosi a causa degli eventi climatici estremi. Ed è ovviamente divergente sia con il Green New Deal approvato dal Parlamento Europeo, sia con le misure adottate e previste dalla Cina per combattere il cambiamento climatico. Né trova sponda sul suo “idolo” Boris Johnson, che ieri ha assunto impegni molto precisi per la decarbonizzazione dell’economia inglese

Dunque Trump appare il campione isolato dell’economia a “tutto carbone”, in contrapposizione alla larga maggioranza della comunità internazionale e contro i profeti di sventura del cambiamento climatico. Ma è proprio così ? Se osserviamo la posizione di Trump attraverso la chiave di America First, l’accelerazione della estrazione di olio e gas nazionali (shale incluso) negli ultimi tre anni ha consentito agli Usa non solo di raggiungere l’indipendenza energetica ma anche di diventare esportatore netto. Oggi gli Usa sono il primo produttore mondiale di prodotti petroliferi, e coprono il 18% del mercato mondiale rispetto al 12% dell’Arabia Saudita ed all’11% della Russia.

Per quanto riguarda il gas, e in particolare Lng, la produzione Usa ha già superato quella del Qatar ed è previsto che entro il 2024 superi anche l’Australia, oggi primo produttore ed esportatore, secondo le valutazioni di un recente rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. Questi dati danno evidenza ad un diverso profilo del presidente Usa.

Ed è evidente che la politica energetica di Trump non può assumere come riferimento i dati sul cambiamento climatico resi pubblici e aggiornati dalle Agenzie governative Usa, perché altrimenti America First dovrebbe essere orientata verso il primato americano nello sviluppo delle energie alternative a basso contenuto di carbonio.
Tuttavia il presidente Usa non è “un negazionista”, ma considera il rischio climatico non così urgente da richiedere un cambio radicale della matrice energetica. E così invita ad essere ottimisti sul futuro, perché abbiamo il tempo per trovare soluzioni diverse senza rinunciare all’uso dell’energia “più facile” e disponibile. In questo modo Trump è il leader globale, l’espressione politica esplicita dei molteplici interessi e degli investimenti, in corso e programmati, finalizzati a conservare e consolidare il ruolo dominante dei combustibili fossili nell’economia globale.

Trump sarà anche isolato internazionalmente rispetto agli impegni sul clima “dichiarati” dalla gran parte dei paesi ma – almeno per il momento – la sua strategia è vincente perché le altre grandi economie sono ancora fortemente dipendenti dai combustibili fossili nonostante i significativi investimenti sulle fonti rinnovabili in Europa e in Cina, e le compagnie energetiche dei paesi europei e della Cina competono a tutto campo per nuove capacità estrattive in ogni angolo del pianeta.

Questa è la sintesi del risiko sul cambiamento climatico ben rappresentata dall’intervento di Trump a Davos. Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, intervenendo a Davos ha detto chiaro e tondo che “hanno completamente torto quelli che ritengono la de-carbonizzazione un danno per l’economia globale”. Mentre John Ferguson, direttore di The Economist Intelligence Unit, ha detto che “l’errore di Trump è quello di pensare che si possano rinviare le decisioni sul cambiamento climatico, e questo errore costerà molto caro in termini economici e sociali”.

Se i tempi stringono, come ci ricordano le Agenzie governative Usa e la comunità scientifica internazionale, è necessario interrompere il trend di crescita degli investimenti sui combustibili fossili (a partire da carbone e olio) e sostenere lo shift verso le soluzioni alternative sia nelle fonti energetiche sia negli usi finali . Questo richiede un mix di regole e iniziative convergenti verso l’applicazione di un “prezzo del carbonio” da un lato, e dall’altro la riduzione degli investimenti di istituzioni finanziarie e fondi a favore di nuovi progetti per l’impiego dei combustibili fossili.

Insomma, fuori dalla retorica del “gigante cattivo e della bambina”, l’intervento di Trump a Davos segna uno spartiacque tra due visioni e due politiche per il futuro. In questa prospettiva sono sicuramente promettenti le regole e i programmi che si stanno introducendo in Europa con il Green New Deal e in Cina con la legislazione sulla Circular Economy e la Global Energy Interconnection for Addressing Climate Change.

Ma regole e programmi richiedono misure fiscali adeguate, come la carbon tax estesa a tutti gli impieghi dei combustibili fossili, e una svolta decisa delle istituzioni finanziarie. La Banca mondiale, la Banca europea degli investimenti, la stessa Asian Infrastructure Investment Bank, si stanno muovendo nella direzione giusta, ma troppo poco e troppo lentamente. Ed è un chiaro segnale di svolta la decisione di BlackRock, il più grande fondo di investimenti mondiale.

Larry Fink, il capo di BlackRock, ha dato indicazioni ai rappresentanti del fondo nelle società partecipate di bloccare i finanziamenti per programmi o progetti non sostenibili. Fink ha scritto testualmente “Il rischio climatico è un rischio di investimento. Che previsione possiamo fare sui mutui trentennali se chi li eroga non è in grado di stimare l’impatto del cambiamento climatico su questo arco di tempo. Quale sarà l’impatto sui tassi di interesse, se il costo del cibo aumentasse a causa di siccità o inondazioni ?”.

La lettera di Fink è una indicazione efficace e concreta, anche perché richiede “l’uscita dagli investimenti in corso ad alto rischio ambientale, come le centrali a carbone”. Ed auspicabile che BlackRock sia l’apripista per gli altri grandi fondi che investono nel carbone e nel petrolio. Il Fondo pensione governativo della Norvegia si sta muovendo nella stessa direzione di BlacRock, anche se in modo più “timido”. Il Climate Summit tra Europa e Cina il prossimo settembre a Lipsia è forse l’ultima occasione per costruire una piattaforma politica, industriale e finanziaria per la decarbonizzazione dell’economia globale. Sarà decisiva, per il successo del Summit, la partecipazione delle imprese europee e cinesi, e delle istituzioni finanziarie alla elaborazione delle decisioni finali. E non sarebbe male se Boris Johnson fosse della partita.

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