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I coriandoli della prescrizione. La riforma Bonafede vista da Francesco Puleio

Di Francesco Puleio

La prescrizione è un istituto presente nel nostro ordinamento sin dai codici preunitari: essa determina l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere del tempo perché, con gli anni, viene meno l’interesse dello Stato a punire una condotta ormai risalente ed una persona che – magari – negli anni si è reinserita socialmente, per non parlare della difficoltà di reperire le prove in relazione a fatti quasi dimenticati. Dapprincipio l’istituto serviva agli scopi dichiarati senza sortire effetti collaterali eccessivamente negativi; le cose cambiano con l’introduzione del codice del 1989 e dei suoi processi dai tempi dilatati e, soprattutto, con la modifica del 2005 (la cd. Legge Cirielli) che ne riduce in modo inaccettabile i termini: la prescrizione assume caratteristiche patologiche, trasformandosi in un meccanismo demolitorio del processo penale. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), “si è in presenza di un vero e proprio deficit strutturale del sistema italiano, che condiziona pesantemente l’efficacia della repressione penale dei comportamenti contrari agli artt. 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

Ora, con una legge approvata all’inizio di quest’anno, si è finalmente deciso di allineare il sistema al resto dell’Europa e del mondo occidentale (Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, ecc., che ci guardavano senza capire perché dalle nostre parti, anziché il processo, galoppasse la prescrizione), e di impedire la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: come del resto auspicava la Cedu. Perché dunque illustri accademici, sebbene talora digiuni di pratica processuale, a braccetto con autorevoli esponenti politici e prestigiosi avvocatoni, lamentano adesso la cancellazione di un istituto di grande civiltà, sacrificato in nome dell’ossessione punitiva? Davvero siamo di fronte ad una riforma scellerata che ci renderà tutti schiavi di una giustizia lenta e farraginosa, ostaggi di procure e tribunali vita natural durante; che farà, per dirla con le argute iperboli di un comico delle nostre parti, “i coriandoli con la Costituzione”?

Secondo i critici, non si può bloccare il decorso della prescrizione dopo il primo grado di giudizio perché l’articolo 111 della Costituzione stabilisce che i processi abbiano “una ragionevole durata”. Per loro, se a partire dalla prima sentenza non si prescrivesse più nulla, i dibattimenti d’appello e in Cassazione diventerebbero infiniti. Il ragionamento suona bene, ma è falso, perché chi è stato condannato in tribunale e ritiene di poter essere assolto in appello, avrebbe ogni ragione per accelerare la definizione del processo, mentre chi non può sperare in un esito favorevole del secondo grado non merita premi all’ostruzionismo. Peraltro, il ragionamento di chi vuole accorciare la durata delle cause amputandone una parte somiglia a quello del medico somarello che, non sapendo guarire la febbre, modifichi la gradazione del termometro. Un correttivo potrebbe semmai proporsi per chi in primo grado sia stato assolto, ma per il resto la riforma è sacrosanta.

Il motivo principale per cui i processi durano tanto a lungo è infatti semplice: ne vengono celebrati troppi. E ne vengono celebrati troppi perché a chi ha buone probabilità di essere dichiarato colpevole non conviene rimediare una condanna in quattro e quattr’otto. E vediamo perché.

Anche se molti fanno finta di non saperlo, in Italia è in vigore dal 1989 un sistema accusatorio: il Codice di procedura penale prevede cioè che la prova si formi in aula. Per questo vengono ascoltati decine e decine di testimoni, molte delle indagini dei procuratori, come commedie di successo, vengono replicate davanti al giudice. Questa è una buona cosa per il cittadino imputato, che così riduce di molto il rischio di venir condannato da innocente: ma ovviamente i processi così celebrati durano mesi o anni e i tribunali si intasano.

Ora, chi aveva scritto il nuovo Codice sapeva bene di andare incontro al rischio ingolfamento. E infatti aveva previsto che di dibattimenti in aula se ne facessero pochissimi: come accade negli Usa dove l’85 per cento degli imputati, quando le prove contro di loro sono forti, si dichiarano colpevoli e patteggiano la condanna, ottenendo degli sconti di pena. O in Inghilterra, dove addirittura solo il 10 per cento delle persone sotto inchiesta arriva al processo. In quei paesi, però, la prescrizione smette di decorrere dal momento del rinvio a giudizio (o semplicemente non esiste) e la pena è effettiva. Se ti condannano a tre anni vai in prigione, punto e basta. In Italia accade l’esatto contrario. Da una parte, se l’imputato è incensurato ha probabilità quasi nulle di scontare in carcere una condanna sotto i quattro anni. Dall’altra, la prescrizione continua a correre in primo, secondo e terzo grado. Risultato: a quasi tutti conviene andare davanti al giudice e tirarla il più possibile per le lunghe. Se va bene, tutto viene cancellato dal passare del tempo. Se va male, si arriverà a un verdetto in gran parte virtuale (e per questo è necessario che si rendano effettive le pene). Il patteggiamento e il rito abbreviato, insomma, da noi convengono poco e i processi si paralizzano. Al danno poi si aggiunge pure la beffa. Lo Stato spende una barca di soldi, tra indagini, stipendi di magistrati e poliziotti e gratuito patrocinio per gli avvocati (nel 2018, il distretto di Catania è risultato il primo in Italia per tali spese di giustizia!) per individuare e portare a giudizio un imputato. Ma tutto quel denaro, grazie alla prescrizione che oggi può scattare a processo in corso, viene poi perso senza riuscire alla fine a stabilire se chi è finito alla sbarra sia colpevole o innocente. Con grave smacco dei contribuenti e soprattutto delle vittime dei reati, che in Italia, per fortuna, restano ancora molto più numerose di chi li commette.

Il nostro dibattimento diventa così farraginoso, complesso, polverizzato sovente in decine di udienze. Le sue lungaggini ed i ritardi di celebrazione, dovuti – in tutte le sedi, da Torino a Siracusa – all’ingorgo della fase del giudizio, alterano il carattere del rito, nelle intenzioni contrassegnato dall’oralità e quindi legato, per il suo buon esito come strumento di accertamento della verità, ad una celebrazione il più possibile prossima alla consumazione del reato. Il che produce l’ulteriore effetto del rilievo abnorme che nel comune sentire acquista la fase delle indagini preliminari e le misure cautelari.

Si realizza in tal modo un circolo perverso di cause ed effetti, per cui l’elusione dei riti alternativi remora la giustizia a causa dei lunghi tempi necessari all’acquisizione delle prove in dibattimento, e il rallentamento induce gli imputati a scartare patteggiamenti e giudizi abbreviati, per puntare sulla prescrizione del reato, prima che si giunga ad una sentenza definitiva attraverso il rito ordinario.

Per questo eliminare la prescrizione in corso di causa ed il suo abnorme rilievo giocato ormai nel sistema, la cui prospettiva inquina l’intero meccanismo, ingolosendo i procrastinatori di professione, vuol dire compiere il primo passo per contrastare l’attuale situazione di collasso del processo. Quello successivo deve essere di rendere certa la sanzione penale, al contempo perseguendo una rieducazione effettiva dei condannati, anziché soltanto la loro neutralizzazione temporanea, evitando di barattare la tranquillità nelle carceri con sconti e benefici.

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