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Craxi, D’Alema sul banco degli imputati e la Storia. Il commento di Ocone

Perché una Repubblica che da sempre ha negoziato su tutto per due suoi uomini di punta, due grandi statisti, cioè Aldo Moro e Bettino Craxi, si è rifiutata di farlo, mostrandosi, quanto meno, intransigente e disumana? Se lo è chiesto Marcello Sorgi nel suo recente volume, dedicato agli ultimi giorni e alla scomparsa del leader socialista, giusto venti anni fa: “Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi” (Einaudi).

Sul banco degli imputati ieri sera, al Circolo della stampa estera a Roma, alla presentazione del libro, c’era Massimo d’Alema, che era allora presidente del Consiglio e che oggi almeno, a differenza dei suoi ex compagni di partito (che hanno fatto pesare la loro assenza ad Hammamet la scorsa settimana nelle commemorazioni ufficiali), non si sottrae ai dibattiti. D’Alema parla di Craxi come di un uomo sconfitto, su due fronti: su quello giudiziario, ove si trovò ad essere il capro espiatorio di un’operazione di “purificazione” della politica italiana; su quello politico, ove le sue idee non trovarono sponda nel Pci.

Fatto sta, incalza Stefania Craxi, che, sul primo punto, il fronte giudiziario risparmiò o quasi i comunisti, che pure finanziavano anche loro illecitamente la politica, e costoro li ripagarono non contrastando il loro operato e non facendo valere il primato della politica; sul secondo, gli eredi di quella storia a tutt’oggi si rifiutano di fare fino in fondo i conti con il loro passato, ammettendo che Craxi aveva visto giusto e che la via riformista e anticomunista era per la sinistra quella da seguire. D’Alema non ci sta, dicendo che più che fare la scelta pubblica e impopolare di tentare di far ritornare in Italia Craxi a curarsi non poteva fare: non poteva imporre che tornasse da uomo libero, come il leader socialista giustamente pretendeva.

In uno Stato di diritto, dice, la politica deve garantire l’autonomia dei magistrati. Peccato, ha osservato Sorgi, che le sentenze con cui Craxi era stato condannato tutto erano fuorché imparziali: la Corte dei diritti europea avrebbe riconosciuto qualche anno dopo, in una sentenza storica, che le indagini erano state condotte senza garanzie per l’imputato.

Ma davvero D’Alema non poteva andare più a fondo, salvando la vita del leader socialista, casomai, chiede la figlia, patrocinando un’operazione attraverso i servizi di cui allora era capo? Incalzato anche dal moderatore, il direttore de Il Messaggero Virman Cusenza, D’Alema ha osservato poi che il clima era tale in Italia che quello che lui fece, tantissimo a suo dire, lo ha reso a vita “sgradito a Dio e a li nemici suoi”. E chiama in correità i media che, in quella occasione, presero acriticamente posizione facendo montare nel paese un pericoloso clima giustizialista. Rivendica poi il fatto di essere stato l’unico, con la Bicamerale, ad avere, nel 1997, proposto un sostanzioso riequilibrio dei poteri fra politica e magistratura.

Fu Berlusconi, che del clima giustizialista si era qualche anno prima avvantaggiato, a far saltare allora il tavolo: e così si perse, dice, una “occasione storica”. Aggiunge che non ha mai partecipato al linciaggio di un uomo che, messe da parte le vicende giudiziarie, ha considerato, su un altro piano, un importante uomo di Stato (arrivando a chiedere per lui i funerali istituzionali). Si spinge poi fino a parlare di Mani Pulite come una trama ordita da quel mondo finanziario che pure si era servito del potere politico.

Sorgi richiama alla memoria anche i rapporti mai chiariti fra Di Pietro e il consolato americano a Milano, che veniva addirittura informato in anticipo delle azioni del pool. L’ex leader comunista osserva poi di non dover fare autocritica politica, perché l’ha fatta anzi tempo e che, comunque, vicende tanto lontane vanno storicizzate perché è ridicolo chiamare in causa la lotta politica fra Berlinguer e Craxi per spiegare i problemi di oggi della nostra democrazia. Più che un apprezzabile richiamo alla storia, questa considerazione di D’Alema è sembrata però ai più un voler sottrarsi da responsabilità che, da una parte, furono di certo equamente distribuite fra i partiti politici, ma, dall’altra, appartenevano anche in modo rilevante all’ex Pci.

Siamo sicuri che quelle vicende non c’entrino con l’oggi? Non è forse vero che tante contraddizioni attuali della nostra politica hanno origine in certi nodi né allora né in seguito sciolti? La storia, come suol dirsi, non fa salti. E, aggiungo, non fa nemmeno sconti.

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