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Dove sono e cosa rischiano i militari italiani? Lo spiega il gen. Bertolini

Parlare di guerra è forse prematuro, ma sicuramente l’uccisione di Qassem Soleimani alza la tensione a livelli mai visti. I militari italiani tra Iraq e Libano non sembrano particolarmente esposti, anche se l’attesa reazione di Teheran al raid americano potrebbe accendere la miccia in diversi contesti su tutto il Medio Oriente, fino a nord Africa e Mediterraneo dove la crisi libica appare già complicata dall’azione turca. Parola del generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi) e della Brigata paracadutisti Folgore. E infatti dal ministero della Difesa, guidato da Lorenzo Guerini, arriva notizia dell’innalzamento delle misure di sicurezza per i contingenti all’estero: “sono stati limitati al minimo gli spostamenti al di fuori delle basi”. In Iraq, nell’ambito dell’operazione Prima Parthica (contributo nazionale alla Coalizione anti-Isis), operano all’incirca 900 miliari. Mille sono invece quelli dispiegati in Libano nella missione Unifil dell’Onu, stanziati nella zona sud del Paese controllata dagli sciiti di Hezbollah.

Generale, stiamo per assistere a una guerra tra Stati Uniti e Iran?

Guerra è sicuramente un termine impegnativo. Tra Washington e Teheran non corre buon sangue e con questo atto, che reputo al di fuori del diritto internazionale bellico, si raggiunge un punto davvero pericoloso. L’Iran non ha la potenzialità, come Paese e come Forze armate, per sostenere uno scontro aperto con gli Stati Uniti su più fronti. La situazione andrà però peggiorando. D’altra parte, gli iraniani non nascondono di sentirsi parte di un’alleanza che includerebbe oltre alla Russia (con cui coopera in Siria) anche la Cina, viste le esercitazioni congiunte di qualche giorno fa nel Golfo persico. La crisi va vista dunque nella sua globalità.

Ci spieghi meglio.

Gli eventi critici non coinvolgono solo Stati Uniti e Iran, ma anche i rispettivi alleati: Israele e Arabia Saudita (gli alleati di Washington a cui l’uccisione di Soleimani fa molto piacere), Russia e Cina, fino alla Turchia. È un momento brutto, conseguenza della guerra che ha portato alla rimozione di Saddam Hussein. Dalla sua cattura ed esecuzione, l’Iraq avrebbe dovuto imboccare la strada della democrazia, ma adesso pare evidente che ciò non è accaduto. Lo stesso si potrebbe dire di Gheddafi in Libia, e lo stesso sarebbe potuto accadere con Assad in Siria senza l’intervento della Russia.

In Iraq, tra Erbil e Baghdad, ci sono circa 900 militari italiani. Oltre mille sono in Libano. Che grado di esposizione c’è vista l’escalation tra americani e iraniani?

Tutta l’area mediorientale è ormai divenuta molto delicata. In Libano, siamo nella fascia tra il fiume Litani e la “blue line” al confine con Israele, un’area ad alta densità sciita con una forte presenza di Hezbollah che, con non indifferente capacità di controllo, garantisce una relativa tranquillità all’area. Se dovesse esserci un inasprimento della situazione con azioni di Hezbollah (che ha già promesso di punire i killer di Soleimani, ndr) contro Israele, da molti ritenuto il mandante occulto di ciò che è successo, i nostri si troverebbe in situazione critica. Molti caschi blu dell’Onu sono morti in questi decenni nell’area. Al momento la situazione resta tranquilla, ma il pericolo è elevato.

E in Iraq?

Siamo presenti nel Kurdistan iracheno e con una componente a Baghdad. Per motivi analoghi al sud del Libano, il Kurdistan rappresenta un’area relativamente tranquilla, sotto il controllo di autorità curde abbastanza strutturate in grado di controllare la situazione. Anche qui però il contesto può cambiare rapidamente, considerando che la Turchia guarda con grande sospetto le entità curde ai propri confini tra Siria e Iraq. In definitiva, non credo che nel Kurdistan possano arrivare minacce dall’Iran, anche se l’area può essere soggetta a turbolenze. Diverso il discorso per la componente a Bagdhad, capitale irachena che abbiamo scoperto poter essere bombardata con droni innescando reazioni che potrebbero rivelarsi drammatiche. Comunque si voglia giustificare l’azione americana, non ne giova la causa della pace.

La Difesa ha annunciato di aver innalzato le misure di sicurezza dei contingenti dove operano i soldati italiani. Cosa sta succedendo in queste ore presso lo Stato maggiore della Difesa italiano e al Comando operativo di vertice interforze?

Si starà affrontando la situazione da un punto di vista tecnico. Abbiamo uomini in diverse aree che possono diventare più critiche di quanto non fossero prima. In questi casi, si danno disposizioni ai contingenti di aumentare i controlli, di ridurre alcuni movimenti e attività o di eseguirli con misure precauzionali aggiuntive. Si tratta di provvedimenti di buon senso, chiaramente senza la possibilità di fornire una ricetta per risolvere il problema alla radice.

Ci saranno colloqui con partner e alleati?

Sicuramente. Saranno probabilmente già stati presi contatti con alleati e autorità locali per capire meglio quello che è il tono generale e per prepararsi a eventuali reazioni. La vita continua comunque esattamente come prima. Si tratta di attività volte a consentire di proseguire le attività precipue di ogni missione.

Ha citato più volte la Turchia. C’è un nesso, secondo lei, tra l’innalzamento della tensione in Medio Oriente (fino al nord Africa) e il nuovo attivismo di Ankara?

Direi di sì. Per questo dicevo che non possiamo concentrarci troppo sulla micro-crisi tra Stati Uniti e Iran. Sebbene l’uccisione di Soleimani sia un evento notevole, potrebbe darci l’idea di un confronto limitato. È invece tutta l’area del Medio Oriente e del Mediterraneo ad essere coinvolta. La Turchia ha ormai iniziato l’avventura nella sua ex Libia (gliela strappammo nel 1911), e ciò interessa tutta l’Europa, a partire dal nostro Paese.

Ci attende un 2020 turbolento?

Se queste sono le premesse, sicuramente sì. Viviamo in una fase di instabilità che non può non preoccuparci e che vede in azione attori diversi, extra europei come Stati Uniti e Russia, europei e mediterranei come la Turchia, che sta assumendo un ruolo non indifferente. C’è chi sostiene che Erdogan stia cercando di distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni con azioni imponenti in politica estera. Io credo invece che stia coerentemente perseguendo una politica neo-ottomana, con l’ambizione (mai nascosta) di aumentare l’influenza di Ankara sull’ex impero. Ne sono esempio la presenza in Siria (anche fuori dalla provincia di Idlib) e ora l’azione in Libia. Sono eventi importanti a cui dobbiamo stare attenti.

Perché?

Perché sicuramente ci coinvolgeranno. Non possiamo far finta di niente. In Libia abbiamo visto cosa significhi non assumerci le nostre responsabilità e adottare un atteggiamento minimalista: vuol dire essere soppiantati. Il problema è che potremmo essere soppiantati non dall’esercito turco, ma dai jihadisti alleati di Ankara che già operano in Siria. Sarebbe un problema enorme ai nostri confini, considerando la facilità per chiunque di raggiungere l’Italia dalla Libia. Insomma, è un momento delicato e bisogna avere le antenne dritte, cosa che purtroppo non mi sembra stia accadendo. Dobbiamo guardare fuori dai nostri confini se vogliamo prevenire i problemi. Siamo nel Mediterraneo, assolutamente esposti a ogni crisi se non maturiamo la consapevolezza delle alleanze che si stanno scontrando. Io vedo il Mediterraneo come una pistola, con un certo numero di colpi nel caricatore, puntata alla testa dell’Europa e dell’Italia.

E quali sono i colpi?

Uno pronto a esplodere è quello della Libia. Un altro è rappresentato dalla Siria, dove Assad ha ottenuto grazie al supporto russo grossi risultati, ma su cui ancora permane la situazione critica a Idlib. Il terzo colpo è, a questo punto, l’Iraq, Paese sempre più influenzato dall’Iran e dalla componente sciita dopo la morte di Saddam Hussein. Poi, c’è l’Ucraina, altro Paese del Mediterraneo allargato (attraverso il Mar Nero) in una situazione di equilibrio instabile, mantenuta così visto che al momento i contendenti non hanno interesse a far partire il colpo, anche se potrebbero. È un contesto in cui nessun Paese responsabile può permettersi posizioni di disarmo unilaterale o di rinuncia alle proprie responsabilità in ambito internazionale. Lo dico con riferimento al nostro Paese, che tuttavia sembra desideroso di rinchiudersi nel proprio orticello.


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