Ogni giorno, la memoria va coltivata. Perché i testimoni, che incarnano – con la loro irripetibile esperienza – ciò che accadde con i totalitarismi del ‘900, non bastano.
Coltivare la memoria significa coglierne e accoglierne, con “realismo visionario”, la quota progettuale. Certo ci vuole coraggio (il cui sinonimo è responsabilità), perché confrontarsi con ciò che accadde solo pochi decenni fa, nel cuore dell’Europa e della civiltà occidentale, significa anzitutto capire che il vero problema è di misurarci con la “politica”.
Nella mediocrità dominante, dove sembra imporsi una logica politica (?) del soddisfarsi nei bisogni “di pancia” del popolo (in molti casi derivanti da un disagio e da una paura reali), ancora ci muoviamo secondo l’approccio semplicistico problema-soluzione. Se i problemi si devono risolvere, e l’arte del governare ne è pratica, non possiamo confondere la politica con l’amministrazione o, se si preferisce, “appiattire” la prima sulla seconda.
Il mondo di oggi, ancora percorso dall’idea totalitaria, è l’evidenza di improvvisazioni (presunte) risolutive. E’ come se le dinamiche complesse della storia fossero “del tutto” riducibili a soluzioni lineari, come se il sentimento di spinta esasperata sull’individualismo non fosse un problema che riguarda la resilienza di noi stessi esseri umani e dei sistemi di organizzazione della convivenza come la democrazia rappresentativa.
Complessità e politica, dunque, sono le nostre parole-chiave in un percorso di ricerca dentro la prospettiva di un “progetto di civiltà”. Ha ragione Roberto Esposito (Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. VIII): (…) ogni definizione filosofica dell’essere ha presupposti, ed effetti, di carattere politico. Anche quelle che lo negano, dal momento che questa stessa negazione poggia su un contrasto di principio tra politico e non-politico. Dire che qualcosa, un’azione o un discorso, non è politico, già lo situa in un contrasto di natura politica. Ciò che si presenta a-politico, o anti-politico, è l’effetto della rimozione del suo momento istituente, in quanto tale sempre politico. D’altra parte qualsiasi modalità dell’essere – a partire dal suo stesso “poter essere” – esprime tutta la tensione politica dei rapporti da cui origina e che tende a mutare.
Siamo con chi pensa che dobbiamo (ri)entrare in un “periodo istituente” e accettarne la sfida. Tale lavoro di ricerca deve accompagnarsi alla (ri)elaborazione di un giudizio storico nei “segni dei tempi” che la realtà ci propone: nei cinque ambiti di realtà, a-centrici e a-dogmatici (morale, dei principi/culturale/politico-istituzionale/economico/giuridico), e nelle sfide che, dal livello planetario, entrano nei nostri territori (fisici e di senso) e fin nel profondo delle nostre vite.
(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e fra gli Stati, Link Campus University)