Luigi Di Maio è il capo politico del partito di maggioranza in questo Parlamento: il partito, o movimento se preferite, attorno a cui ha ruotato sia il primo governo Conte sia il secondo, che pure sono stati espressione di due diverse maggioranze. A cambiare è stato solo il socio di minoranza dei due diversi esecutivi, e il ruolo in seno ai due governi dello stesso Di Maio.
Non è perciò un caso che il politico campano, nel suo discorso di Capodanno via Facebook, abbia elencato soprattutto i risultati, più o meno reali, raggiunti dal Movimento al governo. Nato come il “partito del vaffa”, cioè dell’opposizione alla “casta” e in qualche modo alla politica stessa, il Movimento si è praticamente “istituzionalizzato” proprio nella misura in cui oggi volge al positivo, per quanto discutibile, e non “contro” il proprio discorso.
Prescrizione, reddito di cittadinanza, lotta alla corruzione: tutti i temi cari alla ideologia pentastellata hanno trovato spazio nel discorso di Di Maio. Certo, in esso sono affiorati qua e là accenni all’establishment che ha ostacolato e ancora oggi ostacolerebbe le politiche dei Cinque Stelle, ma la consapevolezza di essere in parte ora loro dell’establishment alla fine è affiorata tutta. È vero che Di Maio rappresenta da sempre l’ala più istituzionale del Movimento, ma il fatto che le altre risultino ormai (soprattutto con questo governo) sempre più ai margini, e che l’unico competitor in casa più o meno propria sia per Di Maio il presidente del consiglio Giuseppe Conte, segnala appunto che la transizione è avvenuta. Quando poi certe spinte al cambiamento siano state recepite dal sistema, o se viceversa sia stato il sistema a metabolizzare i Cinque Stelle, questo resta oggetto di discussione, forse soprattutto per gli storici.
A me pare che oggi il Movimento sia sempre più vicino ad una sinistra sociale e giustizialista di tipo classico, da cui è però scomparsa un’ideologia forte di riferimento. Ne consegue una politica fatta per issues più o meno slegate e un sostanziale deperimento in competenza e sagacia della classe dirigente. Ciò che però è risultato interessante nel discorso di capodanno è il cambio del look con cui Di Maio si è presentato agli ascoltatori.
Avendo scelto fin dal primo giorno di governo un look fatto di abiti ben tagliati e molto classico-istituzionale (qualcuno aveva perfidamente fatto notare che pure nella foto a casa coi genitori del giorno di Natale egli avesse giacca e cravatta d’ordinanza), ora Di Maio sceglie un look molto informale (maglioncino beige) e si presenta addirittura con la barba non tagliata. Egli dice di essere riuscito a riposarsi in questi giorni e di aver fatto “riposare anche il rasoio”.
Un cambio di comunicazione? Niente affatto, non stiamo dalle zone di Salvini che parla e veste (male) come l’italiano medio del popolo. Qui stiamo in una tranquilla atmosfera piccolo o medio borghese, ove a volte ci si può anche presentare in modo informale ma sempre senza trasandatezza, curati, coi modi gentili. Affermata l’immagine di politico sereno e tranquillo, qualche volta si può osare un po’ di più. Nata sulle piazze, la “rivoluzione” è finita nel tinello di casa.