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La risposta a Huawei è il mercato europeo. Parla il deputato tedesco Röttgen

Huawei

Martedì è stato il giorno della decisione con cui il Regno Unito, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, ha aperto, seppur con forti limitazioni, a Huawei nella costruzione dell’infrastruttura 5G britannica. Ieri, invece, la Commissione europea ha pubblicato la sua toolbox. Tra i Paesi chiamati a scegliere i destini della propria rete e del colosso cinese, assieme all’Italia, c’è la Germania. Formiche.net ha sentito il deputato Norbert Röttgen, esponente di punta della Cdu della cancelliera Angela Merkel e presidente della commissione Affari esteri del Bundestag.

Quali conseguenze avrà la decisione britannica sulla Germania?

Il governo britannico ha deciso di lasciare a Huawei un ruolo limitato in quelle che considera parti non core della sua rete 5G. Non trovo convincente la distinzione tra core e non core quando si tratta di 5G, visto che sempre più informazioni sensibili passano dalle parti core alle antenne. In Germania il dibattito è ancora in corso, pertanto prendiamo atto della decisione del Regno Unito, ma non credo che influenzerà in modo rilevante il processo da noi. Ciò è dovuto principalmente al fatto che per noi si tratta della sicurezza europea e della sovranità tecnologica. Il Regno Unito sarebbe stato benvenuto se avesse scelto di far parte di una soluzione europea ma alla fine, con la Brexit che si realizzerà questa settimana, non è più parte dell’Unione europea.

Come si può fronteggiare la minaccia cinese? 

Penso che si debba essere chiari: nessuno in Germania vuole una Lex China. La decisione sul 5G non è contro qualcuno, ma è una decisione per l’Europa. Ciò a cui puntiamo sono criteri generali di sicurezza che includano il requisito secondo cui le aziende che partecipano all’implementazione del 5G non siano soggette a interferenze da parte di Stati stranieri. Huawei, come qualsiasi altra azienda, deve soddisfare tali criteri. Tuttavia, è giusto sottolineare come nell’attuale sistema politico cinese non esistano aziende davvero libere da interferenze statali. I cinesi hanno risposto con ripetute minacce di ritorsioni economiche alla possibilità che Huawei possa non far parte della rete 5G tedesca. Questo è un rischio reale, ma prendere una decisione sulla base della paura sarebbe sciocco. Invece di diventare più dipendenti dalla Cina dovremmo ridurre la nostra dipendenza economica e lavorare per garantire la parità di condizioni il più a lungo possibile. Più la Cina avanza tecnologicamente, più velocemente si chiude lo spazio per provare a cambiare il comportamento cinese.

E l’Unione europea? La Commissione ha appena presentato il suo toolbox sul 5G.

La valutazione di rischio dell’Unione europea presentata nell’ottobre 2019 mette esplicitamente in guardia contro i fornitori di Paesi non democratici soggetti all’influenza dello Stato. La toolbox è sostanzialmente in linea con tali risultati e suggerisce di adottare non solo precauzioni tecniche per garantire la sicurezza delle reti, ma di includere misure politiche relative all’affidabilità politica dei fornitori.

La risposta corretta può arrivare quindi solo dall’Unione europea?

Sostengo una soluzione europea in due direzioni. Abbiamo due società europee in grado di gestire il lancio del 5G in Europa (Nokia ed Ericsson, ndr). Per competere con i fornitori che grazie ai sussidi cinesi hanno un enorme vantaggio sui mercati dei Paesi terzi, dobbiamo dare un mercato a quelle aziende europee. Da dove altro iniziare, se non dall’Europa? Sarebbe auspicabile che l’Unione europea a 27 raggiungesse una posizione comune sulla questione, ma anche una posizione franco-tedesca congiunta sarebbe già un buon inizio.

È ancora convinto che l’Europa abbia le capacità tecnologica di essere un attore a sé?

Sì assolutamente. Abbiamo appena ricordato le due società europee in grado di costruire reti 5G a livello mondiale. Ericsson ha approssimativamente la stessa quota di mercato di Huawei. Se guardiamo ai Paesi più avanzati per quanto riguarda il 5G, molti di loro, come Australia, Giappone o Stati Uniti, hanno deciso di svilupparlo senza fornitori cinesi. Si sono affidati principalmente ad aziende europee. È banalmente un mito che l’implementazione del 5G verrebbe pesantemente rallentata se Huawei non fosse coinvolta. Ma se vogliamo mantenere queste capacità tecnologiche, continuare a comprendere e controllare la tecnologia e quindi rimanere un attore in questo campo, dobbiamo assicurarci che le società che abbiamo sopravvivano.

Assistiamo a battaglie all’interno dei Paesi europei sul modo di gestire queste sfide strategiche. È una situazione win-win per la Cina, no? 

Il modo in cui questo processo verrà percepito in Cina dipende dalle decisioni che prenderemo. Potrebbe essere un momento di forza europea o, se cedessimo alle minacce cinesi, di debolezza. La parte di rete concessa dal Regno Unito è stata accolta con favore in Cina, anche se dai media cinesi è emerso chiaramente che avrebbero preferito una quota maggiore del mercato per Huawei.

L’anno scorso la Grecia si è unita al formato 16+1 dei Paesi dell’Europa che cercano di rafforzare i legami con la Cina. Non pensa che il 17+1 minacci l’unità europea?

Il formato ha sempre contemplato il pericolo di dividere gli Stati membri dell’Unione europea sulle loro posizioni sulla Cina. Ma non credo che la Cina sia riuscita a farlo. Sempre più membri, in particolare Polonia e Repubblica Ceca, mostrano segni di disillusione quando si parla di Cina. Speravano che l’allineamento politico a Xi Jinping si traducesse in investimenti cinesi nei loro Paesi. Ma questi investimenti non si materializzano mai. Inoltre, diversi Paesi hanno avuto episodi di spionaggio che hanno coinvolto cittadini cinesi. Non è così che avevano immaginato la collaborazione con la Cina. Se accostiamo questo ai benefici tratti dall’essere membri dell’Unione europea, questa esperienza potrebbe in realtà rafforzare l’unità europea sulla Cina.

Gli Stati Uniti sono alleati naturali dell’Unione europea contro le sfide poste dalla Cina?

In teoria sì, in pratica le cose sono un po’ più complicate vista l’attuale amministrazione statunitense. Nel complesso, europei e americani concordano nella loro analisi dei problemi che l’ascesa della Cina comporta, in termini economici, per quanto riguarda i diritti umani e l’espansionismo cinese nella sua regione – le manovre nel Mar Cinese Meridionale sono soltanto un esempio. Il punto su cui non siamo d’accordo è il metodo appropriato per affrontare questi problemi. In Europa rifiutiamo qualsiasi azione che violi i principi internazionali e metta in pericolo le organizzazioni multilaterali. Riteniamo che scatenare una guerra commerciale non sia il modo giusto per imbrigliare la Cina. Al contrario, avremmo dovuto trovare una posizione comune nel G20 e costringere la Cina ad accettare le riforme dell’Organizzazione mondiale del commercio.

La scorsa settimana la Camera di commercio dell’Unione europea in Cina ha pubblicato un rapporto secondo il quale le società straniere si sentono escluse dalla Via della seta. Che cosa possono fare gli Stati membri dell’Unione europea ora?

Ci sono due cose che possiamo fare. La Via della seta è un progetto di collegamenti senza precedenti per dimensioni. Non c’è nulla di per sé sbagliato in questo, purché le regole di ingaggio siano trasparenti e gestite a livello multilaterale. Questo è qualcosa che la Cina non vuole, ma per noi questi sono i termini necessari per un impegno europeo. Dovremmo continuare con questa offerta alla Cina, soprattutto in vista del contraccolpo causato dalla Via della seta in molte regioni. La seconda misura che l’Unione europea dovrebbe adottare è rafforzare la propria strategia di collegamento Europa-Asia, che esiste, ma necessita di un sostegno finanziario molto maggiore di quanto previsto finora. Fornire alternative basate sulla trasparenza e sugli investimenti sostenibili porterebbe benefici sia alle imprese europee sia ai Paesi terzi.

Concludiamo con Hong Kong. Perché non chiedere all’Unione europea di mediare?

In un certo senso questa domanda mette insieme tutto ciò di cui abbiamo parlato finora. Sottolinea il motivo per cui dobbiamo essere tecnologicamente competitivi e lavorare su una politica europea comune sulla Cina basata sulla solidarietà. Non si sputa nel piatto in cui si mangia. Per parlare di diritti umani e di democrazia, l’Europa deve essere tecnologicamente competitiva, soprattutto quando si tratta di infrastrutture critiche. A partire da ora ogni singolo Stato membro è vulnerabile alle rappresaglie economiche cinesi quando condanna la violenza della polizia a Hong Kong o la violazione dei diritti umani in Cina. Ciò cambierebbe se esistesse una posizione europea comune su tali questioni e un’autentica solidarietà tra gli Stati membri. Sanzioni contro uno Stato membro significherebbe sanzioni contro tutti. Poiché la Cina comprende il linguaggio della forza e ha bisogno del mercato europeo, sono abbastanza convinto che potremmo assistere a un cambiamento nel loro atteggiamento in tempi rapidi.


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