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Che fine ha fatto il Fondo per le vittime dell’amianto e la partita previdenziale?

Sulla base di alcuni criteri che tengono conto di diversi fattori (esiti del contenzioso, dinamica delle domande e standard di accoglimento, ecc.), gli uffici degli enti previdenziali preposti hanno sviluppato, all’inizio del decennio, una quantificazione dei presumibili oneri fino al 2015. Si tratta di un onere cumulato assai rilevante (13,4 miliardi di euro), che peraltro non teneva conto di quanto sarebbe potuto capitare in altri settori, perché le soluzioni individuate fino ad ora non avevano coperto tutte le situazione contaminate da amianto.

C’era infatti il rischio di dover preventivare ulteriori oneri derivanti dall’estensione dei benefici ai lavoratori FS, in base alla sentenza della Corte Costituzionale n.127/2002 (presso le sedi regionali, allora, erano giacenti 6.636 domande di ferrovieri, ma era solo la punta dell’iceberg). Consapevoli dell’impatto del rischio amianto sui conti pubblici,  il governo e il Parlamento devono venirne a capo in maniera equa e definitiva. Ma bisogna risolvere anche le altre questioni poste, tra cui gli aspetti della responsabilità penale e il Fondo per le vittime di amianto. Non ha senso, infatti, rincorrere processi, spesso contro imprese chiuse o dismesse da decenni.

La legge dovrebbe stabilire che permane la responsabilità civile del datore quando la malattia asbesto correlata sia stata causata da fatto costituente reato perseguibile d’ufficio commesso dal datore di lavoro, o da persona del cui operato egli debba rispondere secondo il codice civile, con violazione di norme di prevenzione specificamente prescritte o di misure dì sicurezza generalmente acquisite e praticate nella produzione industriale per i rischi connessi all’esposizione lavorativa all’amianto all’epoca del fatto medesimo. Questi sono i principi generali che valgono in materia di infortuni e malattie professionali, a fronte del ruolo istituzionale svolto dall’Inail.

Non si capisce perché, nel caso dell’esposizione all’amianto, debba esibirsi l’estro delle procure. Le risorse destinate al finanziamento del Fondo dedicato, infatti, non si spendono da anni, tanto da aver assicurato un ‘’risparmio’’ di ben 1,4 miliardi. Pertanto, visto che l’esperienza concreta ci conferma che i lavori usuranti esistono, ciò significa che i requisiti previsti non consentono l’accesso al bonus previdenziale, consistente in un anticipo dell’età pensionabile. Su tale circostanza  ha influito sicuramente l’ampia rivisitazione della materia attuata dalla riforma Fornero (legge n.214 del 2011).

Tale legge non si è limitata soltanto ad anticipare al 1° gennaio 2012  (rispetto al 2013) l’entrata in vigore del dlgs n.67, ma ne ha attenuato anche i benefici, prevedendo che, dal 2012, i lavoratori c.d. usurati (che in precedenza potevano usufruire di uno ‘’sconto’’ sull’età pensionabile fino a tre anni) possono  andare in quiescenza con una quota (anzianità + età anagrafica) pari a 96 (età non inferiore a 60 anni), mentre dal 2013 la quota è salita a 97 (con un’età minima non inferiore a 61 anni). E così a seguire, mentre in precedenza la soglia  effettiva di uscita era intorno ai 57-58 anni.

È rimasta, inoltre, confermata  la c.d. finestra mobile per cui l’erogazione del trattamento pensionistico slitta di ulteriori 12 mesi. In sostanza, un meccanismo che – per le stesse caratteristiche esistenziali e professionali dei soggetti interessati – poggiava essenzialmente sul pensionamento di anzianità (l’anticipo prendeva a riferimento i requisiti necessari per accedere a questa tipologia) è crollato insieme al superamento dell’istituto. Sarebbe bene allora riconsiderare la materia nel suo insieme per non continuare a impiegare risorse in un ‘’fantasma pensionistico’’. Tuttavia, anche le norme contenenti requisiti più severi di cui alla legge n.214/2011 non giustificano uno ‘’zero assoluto’’ alla voce lavori usuranti. L’aspetto più grave, è che nessuno né l’Inps né i sindacati si è accorto del guaio. E’ ora di rimetterci le mani.

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