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Ma davvero abbiamo bisogno della Germania che certifichi che la denatalità in Italia è la più preoccupante in Europa?

Europas demografische Zukunft (il futuro demografico dell’Europa) è un interessante Rapporto dell’autorevole Istituto di Berlino per la popolazione e lo sviluppo, che arriva ad un’ipotesi che ha due facce. Secondo il pool di economisti, geografi e sociologi che hanno preparato l’analisi, l’invecchiamento del europeo porta a un’immediata conseguenza socio-politica: ci muoviamo verso una maggiore redistribuzione da una parte.

Il che significa che  sulla base della nuova configurazione demografica che “ogni individuo lavorativamente attivo potrà tenere per sé una percentuale più bassa del suo reddito rispetto al passato”, dice lo studio. Un aggiustamento tanto più necessario nei sistemi a sanità pubblica e in quello pensionistico. E dall’altra parte sempre il Rapporto segnala l’Italia come il paese Europeo che ha più problemi in assoluto rispetto alla denatalità (peraltro già certificata nei giorni scorsi da Istat in calo progressivo di anno in anno) e alle ripercussioni economiche che la mancanza di forza lavoro giovane causa all’economia  nostrana: un congelamento recessivo  su quale non si ridistribuisce neanche  il reddito.

Al netto delle considerazioni politiche, l’immigrazione, e questo per tutti i paesi europei, è  solo uno dei possibili molteplici rimedi contro la crisi delle culle, e peraltro discusso.  E inoltre – come afferma l’istituto di Berlino – “per tenere costanti i rapporti fra le classi di età della popolazione servirebbe un numero tale di immigrati” la cui integrazione nella società “non è realistica”. Neppure fare più bambini oggi basta a risolvere l’emergenza: prima che le nuove leve inizino a lavorare, centinaia di migliaia di quasi 70enni saranno in pensione.

Secondo i ricercatori, bisogna puntare sulla rapida integrazione nel mondo del lavoro di chi oggi resta fuori: donne, lavoratori a bassa specializzazione, immigrati già residenti. Oggi il tasso è di 1,58, ancora troppo vicino al pericoloso 1,5 che può portare la popolazione europea “a dimezzarsi nei prossimi 65 anni”. Ma se in Ue nel 2011 eravamo a 1,46, nel 2008 il numero medio dei figli per donna era risalito quota 1,61. Il che significa che – al netto delle politiche per la famiglia – la crescita economica resta il principale volano di quella demografica. Ed è stata la crisi finanziaria del 2008 a far scendere la media. Perché sempre di medie stiamo parlando: in Europa le nascite vanno relativamente bene al nord e all’ovest, mentre le culle restano vuote al sud e all’est: zone da dove i giovani si spostano in cerca di miglior fortuna. In italia abbiamo qualche eccellenza accompagnata da una lunga lista di grandi difficoltà.

Agli studiosi tedeschi, lo stivale appare sempre più una terra di contraddizioni, segnata da problemi “di origine largamente domestica, nati prima della crisi del 2008”. Problemi strutturali che hanno portato l’Fmi a predire per gli italiani un ritorno ai livelli di benessere del 2007 solo nel 2025, quando altri stati Ue avranno superato i livelli pre-crisi del 20-25 per cento.  La situazione deve migliorare rapidamente perché “l’invecchiamento della popolazione è più avanzato che in qualunque altro paese europeo”. Che l’Italia non fosse un paese né di giovani né per i giovani si sapeva, ma la condizione è critica: con 37 persone over 64 ogni 100 in età attiva (20-64), l’indice di dipendenza degli anziani è il più alto d’Europa.

L’età mediana degli italiani è 45,5 anni, contro il 36,6 dell’Irlanda mentre la Liguria è la regione più vecchia del continente. Anche a neonati va male: la media è 1,35 a donna e non si vedono segnali di miglioramento: “In Molise, Basilicata e Sardegna il tasso di fecondità è fra i più bassi d’Europa” (a quota 1,2 bambini). Sappiamo bene che per una crescita della natalità sono necessarie interventi strutturali soprattutto per l’occupazione femminile : prima di tutto incentivi alle aziende con la decontribuzione del salario femminile e crediti di imposta, una politica di ampliamento dei fondi bilaterali che sostengano il reddito delle lavoratrici e dei lavoratori come sostegno ai congedi parentali e soprattutto subito un investimento sugli asili nido e i servizi scolastici perché sappiamo bene che anche  quando il lavoro c’è, sono gli asili a mancare.


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