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Guerini al Pentagono? Così si fa politica estera. Parla Politi (Ndc Foundation)

Avere un rapporto stabile con gli Stati Uniti è cosa ovvia (“o dovrebbe esserlo”). Eppure, in una fase delicata per tanti dossier internazionali, la visita di Lorenzo Guerini a Washington assume una rilevanza particolare. È un passaggio importante, “ma è ancora più importante che abbia un’agenda e che produca conseguenze reali”. Parola di Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, che Formiche.net ha sentito per capire i margini di manovra italiani alla luce della visita ufficiale del ministro della Difesa negli Stati Uniti, che domani sarà ricevuto al Pentagono da Mark Esper.

A due anni e mezzo dall’ultima visita di un ministro della Difesa a Washington, che valore ha in questa fase il viaggio di Guerini?

La visita è chiaramente importante. Sono contatti da mantenere con regolarità, non solo per il legame transatlantico, ma anche per una visione professionale e corretta della politica estera. Avere rapporti stabili con la prima potenza mondiale è una cosa ovvia, o almeno dovrebbe esserlo.

Tra Libia e Iran, nelle ultime settimane in molti hanno criticato una politica estera giudicata troppo inconsistente. La Difesa, visti i cospicui impegni all’estero, può essere lo strumento con cui rilanciare la postura italiana?

Prima di tutto dovremmo uscire da una visione ombelicale dei rapporti che abbiamo con il resto del mondo. L’Italia conta se ha una politica estera e la mette in pratica, non se gli altri si accorgono di noi. Facciamo cose egregie nel contesto dell’Alleanza Atlantica, ma dobbiamo essere capaci di dire dei no e dei sì, e di farlo in tempo quando ce n’è bisogno. Fino a quando è durata la Guerra fretta, l’abbiamo fatto, anche senza dirlo.

Poi che è successo?

Poi c’è stato un ricambio della classe politica, e le scelte sono state affidate all’improvvisazione mediatica. Ci sarebbe bisogno di recuperare due elementi: decisioni politiche chiare e, di conseguenza, concretezza sui tavoli negoziali, con istruzioni dettagliate agli ambasciatori affinché abbiano la forza per passare. Questo è un modo professionale di fare politica estera. Lo fanno tutti. O è così, oppure rimaniamo alle telefonate, o ce la prendiamo perché non siamo stati ricevuti. Simbolismi.

Ci fa un esempio?

Sapere da che parte dobbiamo stare in Libia è una decisione dura, difficile, non twittabile né comoda, ma fa parte di una vera politica estera. È dunque importante la visita del ministro della Difesa a Washington, ma è ancora più importante che abbia un’agenda, che non sia solo una photo-opportunity e che produca conseguenze reali.

A proposito di Libia, perché è importante passare da Washington per gli interessi italiani?

Anche qui è importante capirsi sulla dinamica concreta dietro le parole. Washington non è un passaggio come il giro delle sette chiese. Durante la Guerra fredda, i presidenti del Consiglio ci andavano per avere un’ultima investitura prima di alcune fasi. Oggi, avere rapporti con Washington significa mantenere una relazione con la prima potenza militare al mondo.

Una sponda che conta, insomma.

Sì, ma la prima sponda ce la dobbiamo dare noi. Bisogna vedere se gli americani sono ancora interessati al dossier libico, tenendo presente che la politica americana è globale. Per questo, la nostra politica non può essere solo regionale.

Che intende?

La politica estera deve interessarsi al mondo. L’idea di essere una media potenza che non può trattare certi argomenti è solo una scusa. C’è il dossier cinese; ci sono l’Africa, la Russia e l’Iran; ci sono i Paesi nella zona grigia tra Russia ed Europea, e tra questi la questione ucraina. Non si può parlare solo di Mediterraneo allargato, su cui pure è importante proseguire la battaglia in seno alla Nato per far capire che non c’è solo il fianco orientale.

Questo è in agenda dell’incontro tra Guerini ed Esper, con l’Hub per il sud di Napoli.

L’Hub è uno strumento da utilizzare, ma evitando di trasformarlo in un feticcio. Dobbiamo guardare ad esempio a quello che accade nel Sahel e capire cosa l’Italia vuole fare lì. Ciò richiede la responsabilità della politica, a partire dalla maggioranza. Quest’ultima, quando arriva in Parlamento, deve capire che non sta in Italia, ma nel mondo. È il punto di partenza, altrimenti restiamo in catenaccio vedendo arrivare la palla sempre troppo tardi. E se non lo facciamo, lo fanno gli altri. È ora che gli elettori si chiedano quali sono i costi di una simile politica.

E quali sono questi costi?

Le decisioni di politica estera hanno impatti diretti sulle tasche degli italiani in termini di commesse mancate, di bollette energetiche e di riequilibrio del nostro debito. Non sono scelte a costo zero. Tra tanti sprechi della politica nostrana, i costi della politica estera e della difesa dovrebbe essere interpretati come polizze di assicurazione.

Ma l’Italia può davvero dire la sua sui grandi dossier, come il confronto tra Usa e Cina?

Abbiamo già fatto una scelta di rilievo firmando un memorandum con la Cina. Non è una cosa di basso profilo. Non si tratta di fare il tifo per l’uno o per l’altro, ma di negoziare gli accordi tenendo gli occhi ben aperti. Certo che lo possiamo fare. Ci sono Paesi più piccoli del nostro che lo fanno. Possiamo dire la nostra sulla questione iraniana, su cui c’è un silenzio interessante, o su quello che succede (e non succede) in Ucraina. Possiamo dire la nostra sulla nuova frontiera dell’Artico.

Ma come fare?

Basta vedere l’impronta delle nostre grandi aziende in giro per il mondo. Già questa è una prima riga, ma sicuramente non l’unica.

A proposito di imprese, nell’agenda della visita di Guerini c’è anche la cooperazione industriale. Quanto conta nei rapporti con gli Usa?

Conta molto, prima di tutto perché gli Stati Uniti rappresentano un mercato. È importante però che sia tale. Da decenni si parla in ambito transatlantico di two-way-street, una strada a doppio senso per l’accesso ai mercati tra Europa e Usa. Eppure, per tanti anni si è detto che dall’Europa partisse una stradina di campagna scozzese, e dall’America un’autostrada. Non è così che ci si divide il mercato. Per il resto, i legami industriali restano importanti e le tecnologie interessanti, con decisioni rilevanti da prendere adesso.

Ha descritto l’esigenza di ritrovare una politica estera. Da dove si dovrebbe partire?

Dalle giuste domande. In Afghanistan vogliamo restare o rientrare? In Iraq vogliamo aumentare la presenza come ci hanno chiesto abbastanza esplicitamente gli americani, oppure no? E in Libia? Vogliamo pattugliare le acque tra Golfo persico e Oceano indiano, sapendo che significa prendere posizione su determinati tipi di rivendicazione cinese? E sul processo di pace in Ucraina, dove siamo? Nei Balcani, dove abbiamo ripreso il comando della missione Kfor, siamo in grado di riscuotere quanto investito? Partito il Regno Unito dell’Ue, c’è un carico di responsabilità da prendere: quale è la nostra fetta? E sta succedendo adesso, mentre noi dovevamo deciderlo almeno due anni fa. La politica non si fa con le posizioni dell’ultimo minuto. E non è vero che siamo troppo piccoli per fare delle scelte. Sono solo affabulazioni buone per chi non vuole agire.

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