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L’Iran ha ora un’opportunità: cambiare. Ecco perché (Trump c’entra)

La settimana scorsa, nelle ore successive all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, secondo i giornali internazionali si sentiva nell’aria odore di regime change a Teheran. Era sufficiente sfogliare l’Economist o leggere il Guardian se rendersene conto. Altre testate, come Forbes e la neocon National Interest, si erano al contrario focalizzate sui costi di una guerra contro l’Iran.

Ma gli ultimi sviluppi – l’ammissione del regime dell’abbattimento “per errore” del volo PS752, le proteste di piazza che, come abbiamo raccontato, mettono in difficoltà sia il governo di Hassan Rouhani sia la Guida suprema Ali Khamenei, il caso diplomatico dell’arresto dellambasciatore britannico in Iran, Robert Macaire, accusato di aver incitato le proteste (poi rilasciato dopo alcune ore) – sono un invito a rileggere entrambe le teorie.

Dopo la risposta iraniana, avvenuta attraverso un raid missilistico sulle basi irachene che non ha prodotto vittime tra le forze armate statunitensi, il mondo neocon suggeriva al presidente Donald Trump di contrattaccare. I cosiddetti falchi temevano che se gli Stati Uniti non avessero risposto, ciò sarebbe stato interpretato dal regime degli ayatollah come un segnale di debolezza tale da incoraggiare attentati contro gli interessi statunitensi nel Medio Oriente. Non dobbiamo infatti tralasciare un particolare: con quella risposta, l’Iran voleva dimostrare di essere in grado di colpire bersagli statunitensi e occidentali anche in altri Paesi come l’Iraq.

D’altro canto è difficile ipotizzare una guerra, per diverse ragioni, due in particolare. Prima: il regime è debole, l’economia iraniana è al collasso, situazione ottimale per Washington per tornare ai tavoli negoziali. Seconda: l’amministrazione Trump è divisa tra falchi e colombe, ma con le elezioni alle porte difficilmente il presidente, uno che spesso viene accusato di prendere decisione guardando sondaggi e televisioni, scegliere di aprire un nuovo fronte.

Dopo il disastro aereo una risposta statunitense non è più necessaria. Anzi. Washington assiste a ciò che sta accadendo nelle piazze iraniane compiacendosene. Basti pensare che il tweet in farsi del presidente Trump è, come ha fatto notare Saeed Ghasseminejad della Foundation for Defense of Democracies, il cinguettio in farsi che ha ricevuto più “like”  nella storia della piattaforma.

La Casa Bianca confida nelle sanzioni: con l’ultimo round annunciato questa settimana sono oltre 1.000 le aziende e gli individui iraniani sottoposti a tali misure; coperti pressoché tutti i settori dell’economia. È la “massima pressione” che il presidente Trump promuove da tempo contro il regime, con l’obiettivo di alimentare il dissenso interno. L’abbiamo raccontato ieri: perfino un’app popolare e diffusa perfino in Iran come Instagram ha iniziato a rimuove i post pro Soleimani in linea con le sanzioni di Washington, che così è riuscita a dimostrare a Teheran il suo soft power.

Non un regime change, ma qualcosa dovrà cambiare in Iran per gli Stati Uniti: un processo dal basso. “Sono persuaso del fatto che con lo shutdown di internet e la repressione di due mesi fa, il rapporto tra regime islamico e nazione persiana si è irrimediabilmente incrinato”, ha commentato via Twitter Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luis. “I segni che si osservano somigliano molto a quelli del 1989-91 in Unione Sovietica”, ha aggiunto.

Lo stesso Dottori, in un altro tweet, scrive: “Qualunque ordine politico si affermi in Iran al termine della crisi dell’attuale regime, non è detto che sia filo-occidentale. Pur potendo darsi una differente postura internazionale”.

Come, però, non nessuno sa. L’unica certezza è che ora Teheran sembra avere tutto da perdere a non tornare ai tavoli negoziali con Washington sul nucleare.

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