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Una forza di interposizione europea (con la Turchia) in Libia. La proposta dell’Amb. Castellaneta

Nonostante la mancata sosta a Roma di Fayez al Serraj, il governo italiano sta dimostrando “un attivismo positivo”. Ora, si porebbe pensare a una forza di interposizione europea, a guida italiana, che faciliti la tregua tra i contendenti in campo e che coinvolga la Turchia, evitando la “sua deriva asiatica verso la Russia”. Parola di Giovanni Castellaneta, attuale segretario generale dell’Iniziativa adriatico-ionica (Iai) e presidente di doBank, con alle spalle una lunga carriera diplomatica che lo ha visto anche ambasciatore d’Italia in Iran (1992-1995) e negli Stati Uniti (2005-2009). Lo abbiamo raggiunto per parlare dei contesti che ribollono nel nostro vicinato, dalla Libia fino al Medio Oriente, con i segnali odierni di parziale de-escalation tra Teheran e Washington. Nel complesso, “il 2020 inizia con dei tristi di fuochi d’artificio che non promettono nulla di buono”.

Ambasciatore, è stato un errore non dire ad al Serraj che a palazzo Chigi c’era prima di lui Haftar?

Non conosco i dettagli della vicenda, ma è chiaro che la questione riguarda i conflitti in essere tra le due personalità libiche. Probabilmente ci abbiamo messo del nostro, ma teniamo presente che Haftar sta assediando tripoli. La cosa buona è che comunque ci sia l’attivismo del governo italiano. È importante che si muova in maniera più autorevole. A prescindere dal protocollo, dalla ricostruzioni sulle visite a palazzo Chigi e dal possibile intervento di altri Paesi, la sostanza è che Haftar è venuto a Roma, e che anche Serraj stava per farlo. Ciò è un bene per guadagnare spazio.

Come lo abbiamo perso?

Gli Stati Uniti si sono ritirati dallo scacchiere libico e nordafricano, concentrandosi più su Golfo persico e Iran, lasciando così all’Europa e all’Italia un ruolo preponderante. Purtroppo non siamo riusciti a coglierlo, aprendo lo spazio a Paesi con politiche più ferree e di lungo termine che hanno preso il sopravvento nella gestione della crisi. Il problema principale è che, come europei, non abbiamo operato insieme.

Dopo la mancata visita di Serraj, il ministro Di Maio non ha posto la firma al documento congiunto di Egitto, Francia, Grecia e Cipro, perché considerato troppo sbilanciato contro la Turchia. Una scelta giusta per bilanciare l’errore con Serraj?

Una scelta giusta più che altro perché la Turchia rischia di scivolare fuori dall’Alleanza Atlantica e dal campo europeo. Forse abbiamo sbagliato quando, dopo aver chiesto l’inclusione di Ankara nell’Unione europea, e dopo aver avviato i negoziati, li abbiamo bloccati. Ora c’è il tentativo di non lasciare che la Turchia prosegua la deriva asiatica in atto.

Da più parti si invoca un ruolo maggiore dell’Europa per la Libia. Quale può essere?

In questo momento non abbiamo i mezzi per un ruolo di primo piano. Non c’è un esercito europeo, né sistemi di comunicazione autonomi. Abbiamo sistemi d’arma differenti e truppe divise. L’unica potenza nucleare del continente, la Francia, non è disposta a condividerla. Ciò blocca qualsiasi ipotesi di intervento determinato. All’Europa resta dunque solo l’azione a livello politico, incardinata nelle buone intenzioni dell’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell.

Cosa suggerisce?

Per il nostro Paese sarebbe un successo riuscire a ottenere una tregua tra i contendenti in campo. Si potrebbe pensare a una forza di interposizione europea che, con l’accordo dei Paesi coinvolti, possa operare sul terreno. Lo abbiamo già fatto nei Balcani all’epoca della rivolta in Albania, mandando forze europee a guida italiana con una missione di stabilizzazione e poi di ricostruzione civile del Paese.

Intanto però l’intesa sul cessate-il-fuoco in Libia è stata raggiunta da Putin ed Erdogan, che le forze sul campo ce le hanno messe…

Ufficialmente soldati russi non ce ne sono, mentre quelli turchi non sembrano ancora essere stati dispiegati. C’è dunque margine per operare, anche perché una forza di interposizione potrebbe realizzarsi anche con il contributo di Turchia e Russia. Tra l’altro, permetterebbe di riagganciare Ankara all’Europa, evitando la sua deriva verso est, dove Mosca sta cercando di assorbire l’intera parte orientale del Vecchio continente. Si rischia di fare come con la Serbia che, dopo la contrarietà europea all’adesione all’Ue, ha firmato qualche giorno dopo un accordo commerciale con l’Unione economica euro-asiatica. È solo uno dei tanti esempi della miopia europea.

Passiamo all’Iran. Dopo l’escalation, oggi sono emersi segnali più distesi con gli Stati Uniti. Si aspetta comunque una guerra all’orizzonte?

Una guerra sicuramente no. Continuerà il periodo di conflittualità locali e asimmetriche, perdurante dalla caduta del muro di Berlino. Come tanti osservatori fanno notare, è una terza guerra mondiale mai dichiarata, perduta in tanti rivoli dal 1989 fino ad oggi. E così continuerà, con conflitti di assestamento che persistono dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. È come un vulcano che, speriamo, non avrà mai un’eruzione totale, ma che emette soffioni continuamente e provoca scossoni. Proseguiranno le accuse reciproche e gli interventi militari, magari indiretti, ma non mi aspetto un conflitto diretto. Teheran sa che in una guerra aperte perderebbe. La sproporzione tra le forze è evidente e lascia fuori da ogni ipotesi l’idea di guerra in senso tradizionale. Ciò rafforza tra l’altro Trump che, mentre incassa appoggio trasversale in America per l’uccisione di Soleimani, vedrà probabilmente mettere da parte l’impeachment. Nessuno può immaginare, in una situazione di conflitto strisciante, che il comandante in capo sia impeached.

Trump riuscirà a riportare Teheran al tavolo dei negoziati per un nuovo accordo?

Lo ritegno improbabile. Ricordo ciò che accadde con Carter e il rilascio degli ostaggi all’ambasciata americana a Teheran: il governo iraniano aspettò le elezioni prima di rilasciare ostaggi per non dare un vantaggio al presidente. Allo stesso modo, nell’anno delle elezioni presidenziali americane, gli iraniani non vorranno dare un vantaggio a Trump e quindi non potranno accogliere le offerte di dialogo o di totale de-escalation, che per il presidente rappresenterebbe un grande successo. D’altra parte, Trump sa bene che gli americani apprezzano la difesa degli interessi nazionale, ma non la morte dei soldati al di fuori dei confini nazionali.

Torniamo all’Italia. Abbiamo in Iraq il secondo contingente internazionale dopo quello degli Usa. Lo stesso in Afghanistan e in Libano. Non le sembra che la nostra capacità di sfruttare tale impegno in termini di peso strategico e politico sia piuttosto scarsa?

Sì. Abbiamo importanti contingenti nell’area, e anche in Kosovo. C’è da notare però che sono inviati lì non con protocolli di combattimento, ma di presenza e di addestramento. In parole povere, cento soldati di un altro Paese a bordo di una nave in grado di sparare hanno un peso maggiore. In più, la nostra presenza appare troppo sparpagliata in diversi teatri, alcuni dei quali non prioritari per noi, come l’Afghanistan. Penso che dovremmo concentrare di più le forze dove abbiamo interesse, magari con un esecuzione maggiore di operazioni sul terreno, fermi restando i limiti costituzionali.

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