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Vi spiego paradossi (e contraddizioni) della legge elettorale

Ormai ci siamo: la Consulta domani, o al massimo giovedì, dirà la sua sull’ammissibilità del referendum promosso da otto regioni sulla spinta della Lega per abolire la parte proporzionale della legge elettorale in vigore (il cosiddetto Rosatellum) e farla diventare del tutto maggioritaria. Il tutto succede mentre le forze della maggioranza sembrano aver raggiunto un accordo che va in tutt’altra direzione: per un proporzionale puro con sbarramento al 5%, secondo il modello tedesco (Germanicum).

Nonostante varie altre proposte che emergono e fanno capolino nel dibattito pubblico, e si intrecciano con le prime due, in sostanza si può dire che mentre il centrodestra, che è all’opposizione del governo ma maggioritario nel Paese, opta per il maggioritario, il centrosinistra, che è al governo ma è in minoranza fra i cittadini, preferisce il proporzionale. E già questo ci fa capire come la battaglia politica si sia fatta così intensa da coinvolgere anche le questioni concernenti gli assetti elettorali e istituzionali dello Stato, che secondo la buona grammatica liberal-costituzionale, ormai da tempo accantonata (e non solo in Italia), dovrebbero designare semplicemente la cornice, da tutti accettata, entro cui dar libero corso al gioco democratico. Sotto l’occhio attento delle opposte tifoserie politiche, anch’essa tutto sommato espressione dei rapporti di forza del momento, la Corte dovrebbe fare astrazione completa da tutto e dare un giudizio attinente alla sola logica costituzionale. Lo farà? Abbastanza improbabile. Come è già avvenuto in altre occasioni recenti, essa cercherà piuttosto una soluzione di compromesso o di buon senso e poi troverà, a posteriori, le giustificazioni più plausibili nel testo e nello spirito della Carta.

Non c’è da scandalizzarsi. Questo processo segnala solamente un elemento che tentiamo a rimuovere: le forme classiche della politica istituzionale sono in crisi e altre e più adeguate alla nuova situazione, e che salvaguardino il principio di libertà, non le abbiamo ancora trovate. Nell’attesa, che si spera non sia vana come quella di Godot, ognuno tira l’acqua al suo mulino, cioè fa gli interessi della propria parte politica. In quest’ottica, è evidente che un pronunciamento a favore dei referendum metterebbe una mina sostanzialmente esplosiva sotto il tavolo della maggioranza. Politicizzato al massimo, l’eventuale referendum avrebbe il valore, una volta effettuato, di una sorta di elezioni politiche anticipate. Senza sottovalutare l’ingorgo istituzionale che si creerebbe con l’altro referendum, confermativo questa volta, promosso da un quinto dei senatori, che deve chiamare gli italiani a pronunciarsi sul taglio dei parlamentari, già ampiamente approvato dai loro rappresentanti. Il combinato disposto dei due referendum potrebbe mettere in crisi la nostra democrazia: se un sistema elettorale deve garantire, secondo dottrina, rappresentatività e governabilità al tempo stesso, ci potremmo trovare di fronte a un meccanismo che trascura del tutto il primo aspetto.

Eventuali elezioni anticipate, generate casomai da un esito sfavorevole per il governo della tornata elettorale del 26 gennaio, creerebbero una situazione ancor più paradossale da un punto di vista democratico: si eleggerebbe un nuovo Parlamento con le vecchie regole che non vogliono né i cittadini (secondo sondaggi) né i suoi rappresentanti. Va dato atto, non so se per convinzione o per interesse, a un solo partito, i Fratelli d’Italia, di aver resistito alla politicizzazione spinta anche dell’ambito istituzionale, distinguendo la legittima richiesta politica di elezioni anticipate dalla coerenza con le scelte fatte in materia di legge elettorale (una coerenza manifestatasi in verità già nella scelta di rispettare, nel caso del precedente governo, le alleanze fatte in sede di campagna elettorale).

È un segno che il partito di Giorgia Meloni è coerente nei comportamenti o semplicemente che è legato a vecchie logiche ideologiche che non hanno più corso oggi nella post-politica e nella “politica dell’istante”. Una bella domanda per gli studiosi, o per chi riflette, al capezzale di quello che viene considerato il “grande malato”, cioè l’assetto democratico ereditato.

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