Skip to main content

L’OBIETTIVO MIRATO DELL’UCCISIONE DI SOLEIMANI QUALE MICCIA PER IL FRAGILE EQUILIBRIO DELL’ORDINE MONDIALE

Risultato immagini per CRISI USA IRAN"

(Foto tratta da analisidifesa.it)

 

L’attacco del drone che ha colpito il generale iraniano Qasem Soleimani, assieme alla sua scorta, mentre lasciava l’aeroporto internazionale di Baghdad, segna l’inizio di una nuova escalation nel contesto dell’impiego della forza da parte degli Stati Uniti come forma di contrasto a minacce esterne. La decisione del numero uno della Casa Bianca, Donald Trump, di uccidere Soleimani, comandante del corpo della guardia rivoluzionaria iraniana (denominata Quds), è stato il segno della c.d. guerra al terrore, cioè a dire il colpire in maniera chirurgica soggetti che non rientrano nel contesto del diritto internazionale dei conflitti armati, nell’ambito delle relazioni internazionali. Sappiamo bene come la super Potenza abbia utilizzato lo schema bellico sul piano internazionale al fine di ampliare l’uso dello strumento militare nei confronti di gruppi terroristici. Tale evoluzione dell’uso della forza dimostra come l’influenza della campagna militare che, ormai, è sine die contro il gruppo Al-Qaïda e l’ormai smembrato dello Stato islamico (ISIS), si stia sempre più espandendo sconfinando il limite della non esagerazione del ricorso all’utilizzo della guerra.

Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle, perpetrati dal fondatore di Al-Qaïda, Osama Bin Laden, gli Stati Uniti, con i loro rispettivi presidenti George W. Bush e Barack Obama, hanno inserito la forma, nel contesto dell’uso della forza, di uccisioni mirate contro i combattenti terroristi che operano all’estero, presenti in Pakistan, Afghanistan, Somalia e via discorrendo. Così, hanno inserito nel loro vademecum dei conflitti armati il criterio di guerra in operazioni di antiterrorismo.

Con l’azione di colpire il numero 2 del regime iraniano il 3 gennaio, l’amministrazione Trump ha introdotto il genere di obiettivo che è stato inglobato nell’assetto delle operazioni antiterrorismo degli Stati Uniti nei confronti di un altro Stato. Quanto scritto ci fa comprendere che le uccisioni mirate su comandanti militari di un certo spessore, durante un conflitto armato, non sono una novità per la mera ragione che è una prassi che risale al 1943, quando gli Stati Uniti puntarono nell’abbattere l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante navale dell’Impero giapponese, responsabile degli attacchi contro Pearl Harbor, che era a bordo del velivolo battente bandiera nipponica. Un distinguo va pure fatto, nel senso che mentre l’obiettivo mirato di colpire l’ammiraglio giapponese accadde in un momento in cui gli Stati Uniti e il Paese dell’estremo oriente erano coinvolti nel conflitto mondiale che, come la storia ci narra, si concluse con la totale resa del Giappone, nel caso, invece, del generale Soleimani, comandante militare molto conosciuto nella Repubblica Islamica dell’Iran, gli Stati Uniti hanno agito contro di lui in un momento dove non vi era in atto alcun conflitto bellico convenzionale tra il Paese a stelle e strisce e l’Iran. Chiaramente, non si è fatto attendere la posizione della Casa Bianca che ha asserito che l’attacco mirato contro Soleimani è stato deciso per fermare l’inizio di una guerra.

L’obiettivo della morte del generale iraniano è stato più un’uccisione mirata, non rientrante nella sfera di una vera e propria operazione militare in tempo di guerra. Soleimani è stato reputato, per i vertici della Casa Bianca, colui che patrocinava e orchestrava attori non statali come il gruppo della milizia irachena Kataib Hezbollah, ritenuto responsabile, a parere deli Stati Uniti, dell’attacco contro una base militare irachena, verso la fine di dicembre scorso, dove è stato ucciso un cittadino statunitense che era sul luogo per motivi di lavoro.

Tuttavia, con quest’azione di colpire un organo di uno Stato straniero al di là del conflitto bellico, Trump non lo ha evitato, ma ha scatenato l’ira dell’Iran e la dura protesta dell’Iraq, quest’ultimo ha protestato contro l’Amministrazione Trump per aver violato la sovranità e l’indipendenza del proprio Stato, usando la forza senza il consenso del governo iracheno, tanto è vero che il Parlamento e l’esecutivo iracheno hanno deciso di espellere gli Stati Uniti, assieme alla coalizione presente, tra cui il contingente italiano.

I predecessori di Trump hanno sempre evitato di colpire Soleimani. Si potrebbe portare alla mente l’incursione dei velivoli militari, battenti bandiera statunitense, durante l’amministrazione Reagan, nel 1986, in territorio libico, dove l’allora leader Gheddafi venne considerato l’architetto degli attentati compiuti in una discoteca dell’allora Germania occidentale. L’obbiettivo primario per Reagan era quello di uccidere il colonello libico come scopo mirato. Non mancò la dura condanna delle Nazioni Unite che considerò l’attacco militare contro lo Stato libico una violazione della Carta dell’ONU e del diritto internazionale.

All’inizio del ventennio del XXI secolo, la Casa Bianca ha inquadrato la propria decisione di colpire Soleimani come un atto di carattere difensivo contro un personaggio di un certo spessore che stava sviluppando attivamente piani per attaccare diplomatici e membri dei servizi statunitensi, operanti nel territorio iracheno, motivazione che i vertici del governo di Washington D.C. hanno presentato davanti alla comunità internazionale come scopo per debellare obiettivi terroristici. Tuttavia, non è stato ucciso un Bin Laden o un Al-Baghdadi che erano leader di entità non statali, ma meramente un organo al servizio di uno Stato straniero, quale l’Iran, attraverso l’uso dell’azione coercitiva armata; non si può neppure far rientrare tale azione nel criterio della legittima difesa, dato che l’Iran non ha aggredito con la forza armata gli Stati Uniti.

In conclusione, si può dire che gli Stati Uniti, con il criterio dell’obiettivo mirato, stiano, non solo violando le norme del divieto dell’uso della forza, come sancito nella Carta delle Nazioni Unite e nel diritto internazionale, ma anche mettendo in pericolo il già fragile equilibrio dell’ordine mondiale su cui si poggia la pace e la sicurezza internazionale.

GIUSEPPE PACCIONE

 


×

Iscriviti alla newsletter