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Nostalgie progettuali. Il realismo nel terzo millennio

Il titolo di questa riflessione evoca nostalgia ma, si avverte il lettore, senza malinconia. Chi ha più di quarant’anni può ricordare il periodo della storia italiana passato sotto il nome di Prima Repubblica. Entrato nella vulgata di una “critica a prescindere”, in quel periodo – ben considerando i tanti errori commessi – era noto e praticato il talento della visione politica.

Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia – in una posizione geografica che la rende Paese di frontiera – è sempre stata, e continua a essere, una realtà difficile da governare.
Chi scrive non appartiene alla schiera di chi guarda alla realtà dal buco della propria appartenenza. Avere visione politica attiene alla capacità di comprendere, e di trasferire nelle decisioni strategiche, la realtà complessa del mondo nel proprio particolare. Questa è la sfida del terzo millennio e, dai visionari della Prima Repubblica che conoscevano la dura lezione della politica estera come politica interna, abbiamo molto da imparare.

In questo primo contributo vogliamo brevemente focalizzarci sulla parola “realismo”. Essere realisti, val bene sottolinearlo, significa ritrovare giuste mediazioni tra il bisogno di sistematicità e la crescente imprevedibilità delle e nelle relazioni umane e del e nel contesto internazionale. Il realismo, dunque, impone nuovi paradigmi perché quelli novecenteschi, ereditati da un mondo che non c’è più, oltre a non servire rischiano di cancellare l’importanza della categoria del “politico”.

Se guardiamo al mondo con realismo, calandoci nella realtà, dovremmo cominciare a domandarci: cos’è il potere, dove si trova, chi lo detiene e come lo esercita? Dunque la politica, quell’arte nobile che oggi sembra “sopraffatta” da altri poteri, oltre a dover essere ripensata, sembra essersi “spostata” in altri ambiti. Nel crescente individualismo sociale, complici le disuguaglianze e la cultura della paura, l’agire politico (espressione della responsabilità storica di ciascuno) sembra essere delegato ai mondi dell’innovazione, da un lato, o a espressioni di una politica dell’improvvisazione, dall’altro.

Altresì, lo spostamento riguarda il “chi” davvero incida, nel tempo di oggi, sulle sorti degli Stati e del mondo. Cosa vuol dire fare politica in un tempo in cui saltano, una dopo l’altra, tutte le specificità settoriali? Occorre lavorare sulla sfida delle mediazioni necessarie tra sistematicità e imprevedibilità. Non a caso, alcuni protagonisti della vita politica della Prima Repubblica oggi si dedicano a formare le classi dirigenti del futuro attraverso la formazione universitaria o dirigono importanti fondazioni culturali.

Perché il realismo, nel terzo millennio, passa attraverso un ripensamento del pensiero, attraverso le possibilità di una conoscenza transdisciplinare; come dopo una guerra, bisogna ritrovare il senso e il significato dell’unità del sapere nell’unità della realtà. La generazione di chi scrive ha la grande responsabilità di vivere “nostalgie progettuali”. L’esaltazione del “nuovo per il nuovo”, senza guardare al chi siamo stati, è una strada fragilissima per cercare di capire chi stiamo diventando.



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