Cambio di Governo a Mosca e – come da tradizione – i commentatori occidentali rincorrono la notizia e cercano di farsene una ragione il giorno dopo.
In realtà a sorprendere è proprio questa sorpresa per una mossa più volte annunciata tra le righe e che al Cremlino era nell’aria da tempo, soprattutto dopo il campanello d’allarme delle ultime elezioni locali di settembre 2019, che avevano mostrato una tenuta della popolarità di Vladimir Putin a fronte di un preoccupante erodersi dei consensi del partito di governo, Russia Unita – con un deciso outlook negativo per il futuro.
Fu chiaro allora che il sistema politico-costituzionale e in particolare quello partitico avessero bisogno di anticipare quello shock indotto dall’establishment più volte enunciato per potere indirizzare il processo di transizione di potere del dopo-Putin nel segno della continuità – vero valore di fondo della cultura politica Russa.
Chi è rimasto proteso dal postulato\stereotipo dello Zar-al-comando-attaccato-alla-Presidenza ha continuato ad abbaiare al dito senza guardare la luna, convinto – in particolare dopo la conferenza stampa di Putin di dicembre 2019 – che tutto volgesse ad una brutale riforma costituzionale per permettere al presidente di farsi un terzo mandato.
Ancora una volta, si è preso l’abbaglio del teorema sullo Zar-one-man-band show. L’unica cosa sicura, dopo la notizia di ieri, è che questa opzione è tramontata (e probabilmente non è mai stata presa in vera considerazione) e che anzi, Putin (come ho scritto tempo fa su Dagospia) potrebbe decidere di interrompere in anticipo il suo attuale mandato Presidenziale, a scadenza naturale nel 2024. Ovviamente il tutto non per uscire di scena, anzi. Ma neanche per restare a mo’ del Dictator di Sasha Baron Cohen, come sarcastici commenti nostrani facevano intendere.
Per inciso, un’altra forzatura nostrana è quella di ostinarci ad osservare la dinamica Putin-Medvedev come le categorie del tatticismo politico italiano, come se si trattasse di Berlusconi-Fini. Sono ancora amici? Non si sopportano? Uno vuole sbarazzarsi dell’altro? Medvedev (Fini) è burattino fedele a Putin (Berlusconi) o trama contro di lui ed il secondo non si fida più del primo e lo sta licenziando?
Ripetiamo per l’ennesima volta: non è con il dietroscenismo italico dei rapporti tra i singoli che si spiegano le vicende del sistema politico russo e nemmeno riconducendo tutto agli umori di un uomo solo al comando.
In attesa di comprendere quali ricadute concrete avranno le riforme annunciate (ne sapremo di più tra un paio di settimane), possiamo intanto azzardare al tutto una lettura costituzionale ed una politica, tra loro complementari.
Sul piano costituzionale, si annuncia una riduzione dei poteri Presidenziali e quindi si presume anche della Amministrazione Presidenziale – che in questi anni è stato vero cuore pulsante del paese, trasposizione istituzionale del vecchio Comitato Centrale del PCUS, fautrice di tutte le politiche pubbliche cui tutti i Ministeri erano sottoposti gerarchicamente, relegati al mero ruolo di soggetti implementanti delle linee guida.
Per fare un esempio quasi sconosciuto alle nostre cronache, a fare la politica estera Russa è stato ad oggi Yuri Ushakov, il potente capo del Dipartimento degli Affari Esteri della Amministrazione Presidenziale, mentre al ministro degli Affari Esteri Sergei Lavrov, a questo formalmente sottoposto, spetta il compito di metterla in pratica (peraltro, magistralmente – anche a detta dei critici del Cremlino).
Dopo gli anni della Presidenza debole di Eltsin, Putin si è contraddistinto esattamente per averla resa potente e centrale nel sistema; tanto che durante il mandato presidenziale di Medvedev (2008-2012), questo a più riprese aveva esercitato prerogative indipendenti e superiori rispetto a quelle del Primo ministro, anche se era Putin stesso a tenere la carica in quel periodo.
È ancora presto per dire quali altri organi costituzionali verranno beneficiati dalla riforma, ovvero se ne verrà avvantaggiato il Governo (ma è difficile, vista la piega tecnocratica che ha preso), il Parlamento o – come sembra da alcune indiscrezioni- un Consiglio di Stato le cui competenze ad oggi sono piuttosto vaghe e indefinite.
La questione principale resta il motivo politico di queste riforme. Sulla diagnosi si è detto in apertura (in primis l’erodersi della popolarità del partito dominante e di una classe di tecnocrati, competenti si ma poco abili a gestire le piazze e incapaci di debellare la corruzione).
Resta la prognosi, ovvero cosa si vuole ottenere. Qui le ipotesi si sprecano e le strade aperte sono numerose. Vanno dalla possibilità di indire elezioni parlamentari anticipate per potere replicare e capitalizzare il risultato (ed il pericolo scampato) delle consultazioni amministrative di settembre 2019; al tentativo di creare un luogo di ricaduta istituzionale per Putin dopo l’attuale mandato Presidenziale che non necessariamente sia di nuovo il Governo, troppo esposto; all’ipotesi che circola in questi giorni al Cremlino che egli torni ad occuparsi maggiormente delle questioni di Russia Unita nel tentativo di risollevarne le sorti in vista delle future consultazioni elettorali.