Se vogliamo guardare a un “progetto di civiltà” dobbiamo essere pronti a considerare tutte le crepe strutturali che il tempo presente ci consegna. Non dobbiamo avere paura di affrontare il sentimento della Storia, saremmo vili nel non farlo.
Quando sento parlare di “soluzioni” in un mondo che ha un profondissimo bisogno di pensiero, avverto che qualcosa manca. Abbiamo perso la forza di considerare che l’informalità e le transizioni sono parte di quella realtà che volentieri, per opportunità e per necessità, “riduciamo” all’evidente, al prevedibile, al causale.
Non sono tra coloro che pensano a un mondo perfetto (che, tra l’altro, sarebbe una drammatica finzione totalitaria), senza rapporti di forza (o interessi, chiamiamoli come ci pare). Ciascuno porta nella realtà ciò che è e nessuno è l’altro. Che la competizione sia naturale è un dato; la sua esaltazione, fino all’assolutizzazione che percorre le nostre vite, è un problema.
Sgombrato il campo da logiche buoniste o del tutto irreali, permane il problema del punto di non ritorno nel quale si trova la condizione umana. Si tratta di un punto che mi fa dire, con il “realismo tormentato” degli intellettuali, che siamo nel pieno di un cambio di era.
In quanto docente, allievo intellettuale di Edgar Morin, rifiuto decisamente il tema del “buttare il bambino con l’acqua sporca”. Sono ben consapevole dell’importanza di ciò che l’uomo ha costruito nei secoli, e penso – ad esempio – alla democrazia. Sono altrettanto consapevole, però, di quanto siamo facili alla resa, di quanto non problematizziamo ciò che conosciamo e questo, con buona pace di tutti, non può essere ricondotto a teorie certe ma vive nella responsabilità di ciascuno rispetto all’altro e al complesso del vivente, in sfide che sono planetarie e che noi stessi generiamo.
Dobbiamo “scuotere” le nostre appartenenze e il tema è troppo umano per lasciarlo ai soli competenti.