Già pensare di raccogliere le firme per un referendum sul taglio dei parlamentari è quanto meno bislacco. Approvata la legge a larga maggioranza in Parlamento, e a furore di popolo, cosa altro ci si poteva aspettare da una consultazione su di essa se non che gli italiani la confermassero con percentuali bulgare? Francamente irrealistico in tempi di antipolitica pensare il contrario. Che il referendum fosse strumentale e che servisse a una manciata di parlamentari e ai promotori per altri fini, era evidente sin dall’inizio.
Ora però è arrivato il colpo di scena finale, o le “comiche finali” per dirla con una fortunata serie televisiva della nostra adolescenza: la consegna in Cassazione delle 64 firme richieste dalla legge (un quinto dei rappresentanti di una camera) è slittata di qualche giorno perché otto senatori ci hanno ripensato e hanno ritirato la loro adesione (sic!).
Uno dei promotori, Andrea Cangini di Forza Italia, ha parlato di pressioni che i senatori avrebbero ricevuto dai partiti di appartenenza, ma ha anche detto di non preoccuparsi perché comunque altre firme di rimpiazzo stanno per arrivare e che, per lunedì 12, data ultima prevista per la legge, la fatidica quota 64 sarà finalmente raggiunta. Al che uno immagina un suk arabo ove le firme si vendono e si comprano e in cui fino all’ultimo momento tutto è incerto. Travagliate questioni di coscienza? Non direi. Anche se, essendo tante le variabili in gioco e le interpretazioni ancora di più perché siamo in piena Bisanzio, qualcuno si è spinto fino a dire che il referendum avrebbe puntellato il governo, l’ipotesi più verosimile è invece che i promotori abbiano voluto tentare un azzardo per cercare di raggiungere l’obiettivo opposto.
Cosa è allora successo? Molto banalmente forse in questi giorni molti hanno capito che il loro azzardo non avrebbe sortito l’effetto voluto, che è quello “umano troppo umano” non di garantire la sovranità popolare (la quale per molti dei nostri si esercita in forma mediata come costituzionalmente è previsto solo secondo convenienza), ma di andare alle urne in primavera col vecchio sistema e quindi con più possibilità di essere ricandidati e eletti. E che poi il tutto suoni come uno schiaffo alla volontà popolare e parlamentare, eh beh di questi tempi chi pensa a queste “quisquiglie”?
L’azzardo non funziona, in verità, per molti motivi. In primo luogo, perché c’è ora un vero e proprio ingorgo costituzionale, fra pronuncia della Corte sul referendum maggioritario leghista, accordo fra i partiti sulla nuova legge elettorale, ecc., e quindi la soluzione più indicata è quella di risolverlo prima di andare alle urne. Secondariamente perché, per quanto litigiose e spesso inconcludenti, le forze di governo hanno tutte l’interesse comune di prolungare la legislatura almeno fino all’elezione del Capo dello Stato nell’autunno del 2022. La nostra costituzione ha infatti disegnato, per il presidente della Repubblica, competenze “a fisarmonica”: formalmente notarili, ma in sostanza politiche in periodi di instabilità e frammentazione politica come i nostri. In questi periodi, il Capo dello Stato diventa il vero baricentro della lotta politica e sembra molto improbabile e inverosimile che le forze di maggioranza governo rinuncino alla possibilità di indicarlo loro fra meno di due anni.