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Cosa c’è dietro il piano di pace di Trump. L’analisi di Gramaglia

Il ‘piano di pace del Secolo’, come, con la consueta modestia, lo definisce Donald Trump. Oppure, il ‘tradimento del Secolo’, come lo bollano su lunghezze d’onda analoghe tutti i palestinesi e l’Iran e i suoi affiliati nella Regione. Persino la Turchia, un Paese della Nato, anche se sempre di meno, non usa mezzi termini: “Il piano è un’annessione, è nato morto”.

Il piano è talmente sbilanciato a favore di Israele che i palestinesi manco lo vogliono ascoltare: così, a Washington, con Trump, c’è solo Benjamin Netanyahu, capo di un governo senza maggioranza nella Knesset, pluri-inquisito e presto processato. È come fare gli accordi di Camp David del 1978 con Begin ma senza Sadat – presidente Usa era Jimmy Carter -; o quelli di Oslo del 1993 con Rabin ma senza Arafat – presidente Usa era Bill Clinton -.

Le dichiarazioni roboanti di Trump e di Netanyahu, uno sotto impeachment e l’altro sotto schiaffo della magistratura, lasciano il tempo che trovano, in Medio Oriente: servono a fini interni (e manco troppo). Trump dice che la gente del Medio Oriente è “pronta per un futuro migliore”, proprio come quella di tutto il Mondo; e parla di “svolta storica”, di “un grande passo verso la pace”, addirittura “dell’ultima possibilità di pace per il Medio Oriente”.

Per i palestinesi, ci sono 50 miliardi di dollari e una lettera ad Abu Mazen, lo stop agli insediamenti nei quattro anni di tempo per negoziare, a patto però che essi riconoscano definitivamente Israele come “Stato ebraico”, rinuncino al terrorismo e accettino che il loro Stato sia smilitarizzato. Gerusalemme resta capitale indivisa di Israele, anche se l’affermazione convive con la condizionata e contraddittoria apertura a Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese; e gli insediamenti già effettuati restano dove sono.

L’idea di Trump è che l’accordo di pace segni l’apoteosi del suo secondo mandato, nel 2024. Quando il magnate presidente elogia la minuziosità del piano – 80 pagine, “mai uno così dettagliato prima” – si capisce che è troppo lungo perché lui l’abbia letto; figuriamoci se l’ha scritto. Trump mette la firma in calce al lavoro fatto dal genero Jarred Kushner, imprenditore e uomo d’affari, venditore d’armi (all’Arabia saudita), ebreo, marito di Ivanka, la ‘prima figlia’, il suo consigliere speciale per il Medio Oriente.

Netanyahu è meno magniloquente: riconosce il piano come “una base per negoziati diretti”. Poco dopo, però, la tv israeliana annuncia un voto del governo, domenica, sull’annessione unilaterale della Valle del Giordano e delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

Pure le capitali più caute a mettersi in urto con gli Stati Uniti sono molto prudenti nelle valutazioni: Trump riprende l’idea dei due Stati, che è cara agli europei e che lui aveva inizialmente archiviato, ma ne fa, se va bene, uno Stato e mezzo. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres sollecita le parti a realizzare i due Stati, l’Ue e la Francia insistono per la “soluzione a due Stati”, l’Italia parla di un piano “da esaminare con attenzione”, ma riafferma i principi dei “due Stati due popoli” e di “Gerusalemme capitale condivisa”: non è la voce di Luigi Di Maio, troppo preso dalla politica per queste quisquiglie, ma quella della vice-ministro Marina Sereni.

La Russia cammina sulle uova – “Stiamo analizzando il piano Trump” -, ma solo perché è in arrivo al Cremlino Netanyahu, che deve vedere Vladimir Putin: e, comunque, sollecita “negoziati diretti” fra le due parti.

Per i palestinesi, c’è ben poco, a parte i soldi. Se il concetto è che tutto si può comprare, 50 miliardi di dollari e un milione di posti di lavoro dovrebbero bastare per i palestinesi della striscia di Gaza e per quelli della CisGiordania, che vivono in condizioni di disagio, povertà, sovraffollamento. Ma s’è già visto in giugno alla Conferenza di Manama, centrata sugli aspetti economici del piano Usa, che l’esca dei soldi da sola non funziona: dietro a Trump e a Netanyahu, vanno solo – e con cautela – l’Arabia Saudita, che esprime “apprezzamento”, e gli Emirati arabi uniti, che parlano di un “punto di partenza”, mentre l’Egitto invita a “un esame attento” e la Giordania mette in guardia “dalle conseguenze pericolose di qualsiasi atto unilaterale israeliano”.

La sceneggiata mediorientale si svolge alla Casa Bianca mentre, in Senato, la difesa di Trump chiude i suoi tre giorni di arringhe, dopo i tre giorni di requisitorie dell’accusa, nel processo d’impeachment. Ma il presidente, tweet a parte, continua a occuparsi d’altro, come se il giudizio non lo riguardasse.

Nella serie delle ‘distrazioni di massa’, dopo l’uccisione a Baghdad del generale Qasim Soleimani, creando un rischio di guerra nella Regione, e la tregua dei dazi, con la Cina, ecco il ‘piano di pace’ tra israeliani e palestinesi. Che innesca un “venerdì della rabbia” a Gaza annunciato da Hamas. Che il processo finisca in fretta, prima che Trump incendi il Mondo.

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