“La globalizzazione è la chiave”, anche per il 2020. A scriverlo sono Ian Bremmer e Cliff Kupchan, rispettivamente presidente e chairman di Eurasia Group, nel report Top Risks 2020 dedicato alle minacce globali da temere nell’anno nuovo.
Come gli autori riconoscono, per la prima volta il fattore numero uno da tenere d’occhio è una questione interna agli Stati Uniti: le elezioni di novembre e lo stato delle istituzioni federali in un Paese sempre più polarizzato. Al secondo posto c’è la sfida tra Stati Uniti e Cina nell’ambito tecnologico, mentre al terzo c’è la stessa rivalità, sul piano però delle tensioni che “porteranno a un più esplicito scontro su sicurezza nazionale, influenza e valori”. Giù dal podio il ruolo delle multinazionali, decise a colmare i vuoti lasciati dagli Stati nazione nella governance globale e nell’ordine liberale.
Al fondo della classifica, dall’ottavo posto al decimo, troviamo l’ascesa sciita, i malumori in America Latina e infine la Turchia. Ciò riflette la convinzione degli autori che “nonostante i titoli” il cosiddetto “asse del male” è improbabile “che scoppi”: a differenza di quanto accaduto con George W. Bush alla Casa Bianca, infatti, il presidente Donald Trump “non farà molto per rovesciare i suoi rivali e di conseguenza gli Stati Uniti difficilmente daranno vita a una nuova guerra nel 2020”.
Ciò che ci interessa più da vicino è il sesto punto, tra l’India di Narendra Modi (al quinto posto) e lo scontro tra politica ed economia sul climate change (al settimo): il capitolo si intitola “Geopolitica Europe” ed è dedicato al Vecchio continente che, secondo gli autori, quest’anno si rivelerà più “propositivo”, anche grazie alla nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen e a un leader in ascesa come il presidente francese Emmanuel Macron. A partire dall’ambiente passando per il commercio, per concludere con la politica estera: “Finora” l’Unione europea “si è dimostrata incapace o non disposta a reagire quando non si trovava d’accordo con Washington o, sempre di più, con Pechino. Ma questo sta per cambiare”, si legge.
E “a Washington e Pechino non piacerà”, recita il video che sintetizza i temi del sesto punto del report di Eurasia Group. In effetti, secondo Bremmer e Kupchan, gli Stati Uniti risentiranno della battaglia con Bruxelles sui suoi colossi tecnologici, mentre per la Cina il rischio è di un approccio più duro rispetto al passato da parte dell’Unione europea, con von der Leyen e Macron decisi a difendere la comunità “custode del multilateralismo”.
Ci permettiamo di aggiungere una nota a margine su questo tema. Il banco di prova sarà la Cina, che sempre più spesso ha cercato di accreditarsi come primo baluardo a difesa dall’approccio multilaterale dopo averne sfruttato le lacune anche approfittando della sponda di Bruxelles: è il caso del ruolo dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Lo scontro tra Bruxelles e Pechino rischia di esacerbarsi, fanno notare Bremmer e Kupchan, per diverse ragioni. Tra queste, una posizione più severa sull’antidumping, le questioni calde come lo Xinjiang e il Mar Cinese Meridionale ma soprattutto il ruolo di Macron. Pechino teme, infatti, che il presidente francese “spingerà per controlli più stretti a livello europeo dei progetti della nuova Via della seta”. In sintesi: benvenuti investimenti, ma serve maggior prudenza.
La chiave di volta dall’approccio di Bruxelles è tutto nelle ultime righe del capitolo sesto. Come la Cina insiste sul fatto che il mondo accetti “Una Cina, due sistemi” per Hong Kong, un’Europa più geopolitica punterà sul fatto che la Cina accetti un sistema, i 28 Stati. “Che mal si accorda con Pechino”, conclude il report, lasciando intendere che è nella disgregazione europea che la Cina trova terreno fertile.