Lo scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina sembra aver raggiunto un equilibrio neppure troppo precario dopo la firma della cosiddetta Fase 1 tanto che le attenzioni sia di Washington sia di Pechino si stanno rivolgendo sul Vecchio continente. In particolare, per quanto riguarda la digital tax e il 5G rispettivamente. Ma nella guerra tra le due superpotenze sembra essersi aperto un nuovo capitolo, quello delle Nazioni Unite, uno dei consessi internazionali spesso ignorati dal presidente statunitense Donald Trump, grande oppositore del multilateralismo.
Durante il suo special address al World economic forum di Davos, il presidente ha celebrato l’intesa commerciale con la Cina rimarcando però il dominio degli Stati Uniti. “Siamo di gran lunga la più grande economia al mondo”, ha detto aggiungendo che “la Cina si stava avvicinando, si prevedeva che sarebbe diventata la più grande economia entro il 2019, ma siamo più grandi di loro”. Trump ha poi celebrato il suo “nuovo grande accordo” con Pechino spiegando che “abbiamo, direi, le migliori relazioni mai avute con la Cina”.
Come scriveva Federico Fubini sull’Economia del Corriere della Sera alcuni giorni fa, Davos sembra essere, nella guerra fredda tra Stati Uniti e Cina combattuta soprattutto sul piano tecnologico, ciò che Reykjavik e Helsinki (per gli accordi) ma anche Checkpoint Charlie (per guardarsi in cagnesco) hanno rappresentato nello scontro tra Usa e Urss: un territorio di frontiera, dove due superpotenze si spiano e si studiano con sospetto.
Ma se a Davos è andato in scena un nuovo atto della battaglia tra Washington e Pechino per il 5G (dal forum Ren Zhengfei, presidente di Huawei, ha sfidato l’amministrazione Trump e la minaccia di nuove sanzioni), è al Palazzo di vetro che sta per aprirsi uno scontro inedito. Perché, come già evidenziato, il presidente Trump era apparso allergico ai consessi internazionali. Ora, con Mike Pompeo alla guida del Dipartimento di Stato, il trend sembra essersi invertito: a differenza del predecessore Rex Tillerson, il nuovo capo di Foggy Bottom fa grande affidamento sugli inviati speciali per gestire specifiche situazioni.
Già a Davos Trump ha dato l’impressione di voler cambiare i toni, come spesso capita ai presidenti a caccia della riconferma alla Casa Bianca. Ma è l’ultima mossa del Dipartimento di Stato a suggerirci quale sarà un nuovo terreno di scontro tra Washington e Pechino. Foreign Policy ha rivelato che Foggy Bottom ha nominato un nuovo inviato speciale con l’incarico di frenare la crescente influenza cinese alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali, mosse che, scrive la rivista citando fonti statunitensi, “l’amministrazione Trump ha finora ampiamente snobbato o ignorato”.
Si tratta di Mark Lambert (“la cui nomina non è stata annunciata pubblicamente”, sottolinea Foreign Policy), fino a poco tempo fa inviato speciale degli Stati Uniti per la Corea del Nord. Ma l’intesa nucleare con il leader nordcoreano Kim Jong Un vive una fase di stallo. Così il principale negoziatore, Stephen Biegun, è stato promosso a vicesegretario di Stato mentre Lambert, la cui carica è “special envoy for multilateral integrity”, si muoverà al Palazzo di vetro. Ma non soltanto. “L’amministrazione fa bene a concentrarsi sulla crescente influenza della Cina alle Nazioni Unite, ma si tratta di un problema che si estende oltre New York, tocca Ginevra, le agenzie, i fondi e i programmi specializzati”, ha spiegato Brett Schaeffer, esperto di Nazioni Unite della Heritage Foundation.
Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, in particolare i Paesi europei, sono infatti preoccupati dai successi cinesi alle Nazioni Unite. Tre casi in particolare: l’entusiasmo onusiano verso la Via della seta, il via libera dell’Assemblea generale alla risoluzione sostenuta da russi e cinesi (contrari statunitensi ed europei) per un nuovo patto sulle cyberminacce e l’elezione (a giugno) di Qu Dongyu, viceministro cinese all’Agricoltura, a nuovo direttore generale della Fao.
Proprio la vittoria di Pechino per l’organismo con sede a Roma (battuti il candidato georgiano sostenuto dagli Stati Uniti e quello francese, in un assordante silenzio italiano) ha rappresentato una “lezione da cui imparare” avrebbe detto David Hale, sottosegretario di Stato americano per gli affari politici, avrebbe detto, secondo un briefing riservato visionato da Foreign Policy.
La prima sfida per il nuovo inviato Lambert è in calendario per il 5-6 marzo, quando dovrà essere eletto il nuovo direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, oggi guidata dall’australiano Francis Gurry. Pechino scommette su Wang Binying, uno dei dieci candidati in corsa. Un mese fa i senatori Chuck Schumer (democratico) e Tom Cotton (repubblicano) hanno scritto una lettera al presidente Trump esprimendo “preoccupazioni” per via delle “costanti violazioni della Cina alla leggi sulla proprietà intellettuale”.
Non ci sono statunitensi in corsa e probabilmente Washington cercherà di sostenere il cavallo, tra quelli graditi, con più chance di battere Binying. Perché, come scrivevano Daniel F. Runde e William Alan Reinsch un mese fa sul sito del Center for Strategic & International Studies, l’obiettivo statunitense è impedire che il Wipo, la cui importanza è in forte ascesa, finisca in mani cinesi: sarebbe “disastroso”, scrivono.