Questa mattina ho letto con interesse l’intervista realizzata da Repubblica al Segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti. Di seguito ho provato a mettere insieme alcune riflessioni generali sulla situazione politica attuale e poi sul ruolo dei partiti, e del PD in particolare, oggi. Non sarò breve.
PRIMA DI TUTTO, IL CONTESTO…
Il filosofo Bernard Manin aveva coniato alla fine degli anni Novanta l’espressione “democrazia del pubblico” per descrivere un passaggio da una società in cui i partiti giocavano un ruolo fondamentale nella costruzione dell’opinione pubblica e della proposta politica, a quella della società della comunicazione di massa e quindi del “pubblico”. Siamo diventati “pubblico” – io direi piuttosto “spettatori” dello show politico. In realtà, le sue considerazioni sono più profonde, riguardano le modalità di funzionamento della democrazia e l’organizzazione politica. A me interessa soffermarmi su questa visione superficiale – lo so – di “pubblico”/”spettatori” dello show politico. Lo definisco così.
Questa riflessione si sviluppa in parallelo con quella che descrive gli ultimi decenni come un momento populista: un contributo in tal senso lo hanno dato – tra i tanti – Ernesto Laclau, poi Michael Kazin sempre negli anni Novanta e più recentemente John Judis che parla addirittura di una “esplosione” populista.
Cosa assai più recente, invece, è la riflessione sulla trasformazione della nostra società prodotta, o sollecitata fortemente, dalla digitalizzazione e dalla diffusione, sempre più pervasiva, dei social media nelle vite di ciascuno di noi. Come hanno descritto bene Mauro Calise e Fortunato Musella, nel bel libro “Il Principe Digitale“, viviamo nell’epoca della connectivity per cui status sociale, impulsi alla vita politica e associativa sono dettati più dal principo quantiativo del “quanti follower” hai, e non dalla qualità di quelle relazioni. Loro la definiscono “platform society”. Definizione quanto mai azzeccata!
In sostanza, perché ho citato questi autori e queste “visioni”? Perché nell’attività quotidiana, ma anche politica, tutte e tutti dobbiamo fare i conti, confrontarci – nel bene e nel male – con questa particolare realtà.
Confrontarsi, però, non significa né che ci si debba “adeguare” acriticamente, né che ci si debba “arrendere” senza nemmeno provare a portare avanti qualche proposta alternativa. Non dico nel cambiamento complessivo di paradigma, ma nelle modalità con cui decidiciamo di svolgere le nostre attività.
Siamo immersi, quindi, in questo contesto: i media tradizionali (che giocano ancora un ruolo fondamentale) sono ora affiancati dai new-media che contribuiscono in modo impressionante alla ri-definizione di atteggiamenti, opinioni (anche politiche), modalità di socializzazione e via dicendo.
Assistiamo all’affermarsi di movimenti politici “populisti” e dell’emergere di figure carismatiche che nascono e però alla stessa velocità e con la stessa facilità, scompaiono. Si creano momenti di mobilitazione spontanea e si popolano le piazze, con impressionante capacità aggregativa (per esempio il movimento Friday for Future o le Sardine in Italia di recente), di cui però non si può sapere se “dureranno” o se “si dissolveranno”, cosa vogliono esattamente proporre o raggiungere, o come, che stimolano e interrogano anche la politica “tradizionale” e in generale tutte e tutti noi.
Tuttavia, sono cose diverse, hanno scopi diversi, hanno modalità diverse di funzionamento e soprattutto, per la mia personale visione, rappresentano “solo” – per l’appunto – “momenti”. Il cambiamento, così per come l’ho imparato, sociale e culturale, richiede tempo, non si può sviluppare su fenomeni episodici. Questa concezione mal si adatta al principio contemporaneo della velocità per la velocità. Si badi bene: non sto dando un giudizio di “valore”. Prendo atto semplicemente del fatto che spesso nascono e muoiono idee e strutture, letteralmente macerate dallo scorrere frenetico del tempo social: il M5S nella sua fase di ascesa inarrestabile e altrettanto frenetico e improvviso declino è un bell’esempio di come si viva in un tempo caratterizzato da ciò che scrivevo prima.
La politica, ahimé, non sfugge a tale destino evidentemente e quindi arriviamo al perché delle mie perplessità sulla questione “cambiamento tutto” come PD, così per come emerge nell’intervista di Zingaretti, o che, forse erroneamente, io ho così interpretato.
…ARRIVIAMO AL PD…
Sono anni, ormai, che sento discutere della “necessità” se non addirittura della “urgenza” di cambiare tutto. Di togliere simbolo e nome, di fare una sorta di reset e poi punto e capo. Per ricominciare, come se chi propone cercasse sempre una sorta di “purezza”. La logica è sempre poi la stessa: “aprirsi all’esterno”. Come se, fino ad oggi, il Partito Democratico (PD) fosse stato chiuso e arroccato su un qualche luogo sperduto e inaccessibile. O come se non avesse, al suo interno, le energie, le risorse politiche ed umane, per il rilancio. Penso sia vero l’opposto.
Con ordine:
1) i vertici del PD, in passato, specie nell’era Renzi, o essenzialmente con quell’era, si sono sì arroccati e distanziati dal PD stesso, prima di tutto, dall’elettorato in senso più ampio poi. Ma, attenzione. Non è il PD in quanto partito o comunità politica ad essersi chiuso. Da segretario di circolo, la mia esperienza è assai diversa. Da delegato in assemblea nazionale, è assai diversa. Penso all’esperienza del mio circolo, piccolo, e di “chiusura” non ne ho vista, così come in tante altre realtà del PD all’estero come in Italia. Molte persone, di solito, si avvicinavano con titubanza ( e tutt’ora è così, ma meno) e si iscrivevano come “simpatizzanti” o “interessati”. All’iscrizione arrivavano qualche tempo dopo, vedendo il lavoro quotidiano e le iniziative fatte sul territorio. Ceramente non la strada più facile, e non certo quella più veloce. Sul ruolo fondamentale dei “quadri intermedi” di partito – i muscoli del partito – hanno scritto bene Piero Ignazi e Paola Bordandini. Segretari di Circolo o federazione, così come le militanti e i militanti, hanno lavorato e continuano a lavorare, da volontari e con passione, per tenere vivo il contatto che c’è tra il territorio e il vertice. Ciò che fino a poco tempo fa obiettivamente appariva come molto problematico era, per l’appunto, il vertice e il suo comportamento.
2) l’errore del PD, per come lo ho visto e interpretato fino ad oggi, è che non guarda mai al suo interno, ma sempre fuori da sé. Si tratta di un errore grave. E ripeterlo, o perpetuarlo, non aiuta. Anzi, mina fiducia e impegno: recide la base “muscolare” del partito. C’è una smania di rincorrere, per questo c’era bisogno di un attimo di “contesto”, l’evento del momento o l’emozione. Non che sia errato, per carità. Ma vorrei suggerire al PD di guardarsi, finalmente, dentro: ci sono persone con competenze, capacità, esperienze, passioni strepitose che dovrebbero essere valorizzate e non mortificate. Con questa idea del “fuori c’è di meglio”. Ma chi lo ha detto? Ma su quale base? Ripetendo quel che dicevo sopra: il cambiamento necessità tempo, ma soprattutto, non si basa su fenomeni – per quanto entusiasmanti – episodici. Né si può andare alla ricerca di soggetti da investire di chissà quale capacità salvifica.
3) il PD è aperto, anzi spalancato. E questo è forse un problema. Un partito, in quanto partito, deve funzionare con regole e modalità definite. Si entra e si esce: il PD è già un partito aperto all’esterno. Ma, cosa per me di buon senso, la partecipazione attiva, che si fa con l’iscrizione, deve basarsi su una condivisione di valori e obiettivi. Il senso sta qua. I partiti sono in crisi? Certo, da sempre, come lo è la democrazia. Già Norberto Bobbio, proprio sulla “crisi della democrazia” ci diceva che non poteva che essere così: poiché la democrazia è dinamica. Le dittature non cambiano, perché sono monolitiche. La democrazia è sempre in crisi. Crisi, se leggiamo la definizione etimologica, non ha nessuna connotazione negativa o apocalittica: significa prendere una decisione. Muoversi, quindi, agire. I partiti non sono da meno. Sono decenni che si discute della crisi dei partiti in senso di “fine”. Non è così. La fine non è ancora arrivata, non arriverà presto e io spero non arrivi presto. Non è un caso, mi pare, che anche in questo momento populista le forze che, in Italia come altrove, reggono (il PD per esempio che malgrado 3 scissioni e tanti tumulti sta ancora al 20%) o si rafforzano (la Lega, il partito strutturato più antico dell’arco parlamentare) sono proprio quelle dotate di cultura politica, una connotazione ideologica definita (più o meno, su questo c’è da discuterne) e una struttura chiara e forte. Nessuno impedisce né a chi manifesta con le Sardine (poiché come entità unitaria, non esistono) né a chi lo fa nei movimenti ecologisti, di impegnarsi attivamente nel partito. Se lo vogliono. Portando il loro contributo. Ma anche il loro impegno. Sennò, diventa un mero posizionamento per occupare qualche posizione e rispondere a una qualche mera esigenza di “dare visibilità” senza però affrontare realmente le questioni.
…CONCLUSIONE
I partiti devono certamente cambiare. Senza ombra di dubbio: con intelligenza e con lungimiranza. Non credo, onestamente, che Zingaretti voglia buttare via quest’esperienza, così come apparirebbe dall’intervista. Sono abbastanza certo che ci sia di mezzo una qualche esagerazione giornalistica, poiché Zingaretti è uomo di partito, e sa quanto importante sia la vita politica, la comunità politica, l’impegno e la costanza.
Il PD, che in questi anni ha resistito in modo quasi miracoloso, alle botte prese da ogni parte, da dentro e da fuori, ci dice una cosa importante: che non si deve archiviare questa storia, ma rafforzarla. E la logica, per me, deve essere invertita: ripartire da dentro, per diventare polo d’attrazione per l’esterno.
Si tratta della strada più difficile, meno accomodante e che richiede la pazienza del pensiero lungo. Ma è anche, secondo me, la strada per il rilancio reale e forte. L’alternativa, è evidente, è il PD. Un partito che deve essere certamente ancora migliorato, che si è dato però un’identità politica chiara nella famiglia socialdemocratica europea, grazie proprio alla spinta di Zingaretti, e che poggia sull’idea di “comunità”, già aperto e contendibile, attraverso un sistema – non certo idilliaco e per me assai critico – di primarie aperte per la leadership del partito e di regole di funzionamento e strutture che, malgrado i momenti di grave difficoltà, ne consentono l’esistenza, oltre che la resistenza. Il PD è resiliente. E mentre altrove, penso a destra, ma ahimé, soprattutto a sinistra, ciascuno cerca di coltivare il piccolo orticello delle proprie vanità, con qualche formazione politica ad immagine e interesse del leader di turno, noi, come PD, come comunità, dobbiamo cogliere la sfida del futuro. Spero, ripartendo da noi. Dal PD. Dalle sue energie. Dalle sue competenze ed esperienze migliori. Ci sono. E sono tante.