Entrerà in vigore domani, per una settimana, la riduzione di violenza su cui Stati Uniti e talebani hanno trovato convergenza. È il frutto di lunghi e complessi negoziati condotti a Doha, in Qatar, “un test” per capire se si potrà procedere verso l’ambito accordo di pace a vent’anni dallo scoppio del conflitto. Per sapere se verrà superato, Formiche.net ha sentito il generale Marco Bertolini. Già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi) e della Brigata paracadutisti Folgore, è stato il primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Isaf in Afghanistan, la missione che ha preceduto l’attuale Resolute Support, l’impegno Nato (con circa 800 militari italiani) che aspetta notizie per eventuali ridimensionamenti. Ma i tempi “potrebbero essere lunghi”.
Generale, che significa un’intesa sulla “riduzione di violenza”?
Rappresenta un test. Una mossa del genere può servire come prova di buona volontà da entrambe le parti per capire se si è davvero pronti per il passo successivo. D’altra parte, non serve né agli americani, né ai talebani raggiungere un’intesa del genere se non si è disposti ad andare avanti.
Verso un accordo di pace?
Sì, anche se ci vorrà del tempo. L’intesa raggiunta in Qatar è un primo passo verso un obiettivo a cui si punta da anni. I colloqui tra Stati Uniti e talebani vanno avanti da parecchio tempo a Doha, dove già nel 2012 i talebani hanno aperto una vera e propria ambasciata.
Ma l’interlocutore è credibile? Hanno davvero la capacità di fermare tutte le componenti sul territorio?
Questo è il test. I talebani hanno un’organizzazione strutturata, quella che faceva capo al Mullah Omar e alla Shura di Quetta. Hanno un loro sistema di pianificazione delle campagne belliche, che in Afghanistan si alterano al ritmo delle cosiddette “fighting season”, concentrandosi in estate e primavera quando le condizioni climatiche permettono di intensificare i combattimenti. L’organizzazione è insomma strutturata, con una procedura definita di disseminazione degli ordini. Comunque, dal punto di vista tecnologico non dispongono certamente dei mezzi di cui dispongono gli eserciti occidentali.
Parlava di test, parola utilizzata anche dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, per commentare l’intesa.
Sì. L’accordo sulla riduzione di violenza sarà una prova di efficienza per i talebani, data dalla capacità di disseminare gli ordini ai vari gruppi periferici in modo da farli fermare. In ogni caso, che ci sia una gestione accentrata a livello decisionale da cui dipendono le operazioni è assodato
Il grande escluso dai colloqui è comunque il governo di Kabul. Non è un rischio per gli accordi?
Anche tale questione va avanti da anni. L’esclusione del governo afgano è legata a ragioni di carattere interno e a conflittualità tra etnie ed entità (ce ne sono molte nel Paese) che affondando le radici nei tempi della guerra alla Russia. Già allora era emersa una divaricazione tra le varie realtà rimasta poi nel tempo. Certamente, gli afgani sono un popolo orgoglioso, e certamente non gli fa piacere che una cosa così importante che dovrebbe mettere fine a una guerra che dura da vent’anni viene concluso tra i loro primi alleati (gli Stati Uniti) e i loro principali nemici (i talebani).
Un eventuale accordo di pace avrà ripercussioni a livello istituzionale?
Nel caso in cui si arrivasse a un accordo di pace, il governo afgano si ritroverebbe sicuramente in soggezione di quota rispetto ai talebani, sdoganati dall’intesa con gli Stati Uniti. Dovrà dunque fare i conti con la necessità di ripartizione delle responsabilità tenendo contro del prestigio acquisito dalle realtà talebane che, di fatto, avranno vinto la guerra. Una guerra che ha provocato perdite agli eserciti occidentali, ma soprattutto tra gli afgani. Agli occhi del mondo e dell’opinione pubblica nazionale (per quanto sfaccettata) il vertice afgano e delle Forze armate ne uscirebbe umiliato.
Intanto, con l’intesa si torna a parlare di ritiro della missione Resolute support. È prevedibile nel breve-medio termina?
Io non credo che gli americani si ritireranno, anche perché sono loro ad aver fatto l’accordo con i talebani. Ci sono poi altre realtà, a partire dall’Isis, che continuano a essere un nemico per gli Stati Uniti, un utile “pretesto” (uso un termine forte) per rimanere. Gli americani sono radicati in modo importante nel Paese. Hanno una base importante a Bagram, al centro dell’Asia; l’ambasciata a Kabul ormai una fortezza. Credo che manterranno comunque una presenza significativa. D’altra parte, gli Stati Uniti si sono storicamente ritirati solo dal Vietnam.
E per quanto riguarda la presenza italiana?
Raggiunto l’accordo di pace, si tratterà di diminuire o ridurre l’intesa presenza occidentale. Per quanto riguarda l’Italia, già alla fine del 2014 avevamo pensato di ritirarci. Poi Obama cambiò idea, e allora siamo rimasti, sebbene la natura della missione sia cambiata, da combat a prestazione di addestramento e mentoring in favore delle forze afgane. Noi siamo attualmente a un livello minimo (800 militari, ndr), al di sotto del quale c’è solo lo zero.
Perché?
Perché c’è un numero oltre il quale non si può più ridurre, una quota sotto la quale verrebbero a mancare la condizioni di sicurezza che consentono ai nostri militari di operare e vivere. In ogni caso, non c’è ombra di dubbio che lo stesso ragionamento riguardi gli altri partecipanti alla missione.
Vuole aggiungere qualcosa?
Mi lasci dire che l’intesa odierna non deve sorprendere. Il processo va avanti da tempo e non coinvolge solo Stati Uniti e talebani. Basti ricordare l’accordo tra il presidente Ashraf Ghani (riconfermato due giorni fa dopo cinque mesi di incertezza elettorale, ndr) e Gulbuddin Hekmatyar, uno dei warlord locali che hanno combattuto più violentemente contro il governo afgano. L’impressione è che tutti si siano ormai resi contro che la guerra non può più andare avanti, anche perché la vittoria è al di fuori della portata di ognuno. Eppure, se effettivamente ci sarà un accordo di pace tra americani e talebani, i veri vincitori di vent’anni di guerra saranno quest’ultimi.