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Ecco cosa insegna l’America latina (per ora) sul coronavirus

Le strade di Rio de Janeiro si sono trasformate, come ogni anno in questo periodo, in una passerella di colori e brillantini, dove le scuole di samba sfilano al ritmo della musica e della gioia. Il Sambodromo era pieno di milioni di persone che si sono radunate per festeggiare il Carnevale, appuntamento storico per la città brasiliana.

Niente ha fermato le celebrazioni, nemmeno l’annuncio di un caso di coronavirus in Brasile, il primo in America latina. Il ministero della Salute brasiliano aveva annunciato che un uomo di 61 anni, di rientro dall’Italia, era risultato positivo al test. L’uomo, originario di Sao Paulo, era stato per affari in Lombardia, dove ha contratto il virus. È sotto osservazione all’Ospedale Israelita Albert Einstein di Sao Paulo. Anche le persone che sono state in contatto con lui sono sorvegliate dalle autorità sanitarie.

È da febbraio che il Paese sudamericano si prepara per affrontare una possibile epidemia di coronavirus. La tecnica utilizzata dai medici è quella della prognosi in tempo reale, già applicata per la ricerca della zika, leishmaniasis o varicella. Con l’analisi di un campione della secrezione respiratoria, in tre ore si può verificare la presenza del coronavirus.

Siccome non c’erano campioni reali del virus (finora) in Brasile, i ricercatori dell’Università Federale di Bahia l’avevano riprodotto sinteticamente ai fini dei test. La Fondazione Oswaldo Cruz di Rio de Janeiro si è impegnata ad addestrare per l’uso di questa tecnologia il personale sanitario di altri Paesi latinoamericani: Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Panama, Paraguay, Peru e Uruguay. Purtroppo, il costo elevato del materiale adoperato per questo metodo (circa 45.000 dollari) impedisce che sia diffuso in tutta la regione.

Tutti si chiedono perché il coronavirus non sia arrivato in America latina e se potrebbe eventualmente arrivare. Sylvain Aldighieri, coordinatore per il coronavirus dell’Organizzazione Panamericana della Salute, ha spiegato alla Bbc che nel caso dell’America latina e i Caraibi, uno dei principali motivi per cui il virus non si è diffuso è che ci sono meno viaggiatori e voli diretti dalla Cina in confronto con l’Asia, l’Europa e l’America del nord”. Tuttavia, questa non è l’unica causa: “I Paesi della regione hanno anche applicato misure di identificazione e isolamento molto presto, con una forte sorveglianza”. Il motivo? Hanno un’esperienza importante con malattie di questo tipo.

In Messico, per esempio, è stato implementato un protocollo per tutti i voli con connessione diretta dalla Cina, mentre in Cile è stata fortificata la Rete di sorveglianza epidemiologica con qualsiasi caso di malattia respiratoria negli ospedali cileni. La Colombia, invece, è stato il primo Paese ad attivare il 4 febbraio un test sul coronavirus su tutti i passeggeri che entrano in territorio colombiano.

Tuttavia, è possibile che il coronavirus stia circolando nella regione, ma non sia ancora stato identificato perché mancante di una sua caratterizzazione particolare. Jarbas Barbosa, vicedirettore dell’Ops, ha spiegato a Los Angeles Times che nessun Paese è immune al coronavirus per questioni climatiche.

“Tutti i Paesi del mondo sono a rischio di importare il covid-19 – ha spiegato Aldighieri-. Ma in America latina c’è la struttura per evitare la diffusione grazie alla fortificazione del sistema sanitario dopo la pandemia dell’influenza H1N1 nel 2009”.

C’è però un’altra epidemia che preoccupa l’America latina: il dengue. Ci sono stati 1538 morti e più di 3 milioni di contagiati nel 2019. Un record storico. E il 2020 è iniziato ancora peggio: fino ad ora ci sono 125.000 pazienti in Bolivia, Honduras, Messico e Paraguay, dove persino il presidente e la first lady si sono ammalati. Il ministro della Salute argentino Ginés González García, ha dichiarato che le probabilità che il coronavirus arrivi nel Paese sudamericano sono basse e che sono molto più preoccupati per il dengue: a gennaio ci sono stati 2811 casi, e la cifra continua ad aumentare…

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