Da quando ho conosciuto il “sindaco santo” di Firenze, Giorgio La Pira, il Mediterraneo ha iniziato a parlare al mio cuore. Si è fatto poi annuncio e proposta due anni fa, quando ho cominciato a sentire dentro di me l’incontenibile sofferenza del “Mare Nostrum”, ridotto a tomba di migliaia di fratelli. È così che mi sono ricordato delle parole pronunciate da La Pira: “Il Mediterraneo torni ad essere quello che fu”.
La peculiarità di questo ritrovarci non in un convegno culturale, né per una conferenza è quella di esprimere il nostro modo più autentico di vivere ed essere Chiesa, che dà voce alle difficoltà e alle domande dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, in un momento che per tanti di loro è davvero drammatico. Si tratta di un incontro fraterno, tappa di un percorso più ampio; un’iniziativa che ci chiama ad accogliere quanto lo Spirito Santo saprà suscitare in un confronto e in una discussione che, ne siamo certi, avverrà con franchezza.
La comune appartenenza mediterranea delle nostre Chiese, la nostra comunione cum Petro et sub Petro e la ricchezza delle nostre tradizioni ci indicano nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità una vocazione comune. Una vocazione che ci rimanda all’essere profondo della Chiesa: essere “Chiese che ritornano costantemente alle sorgenti della fede”, per trasmettere ai giovani e alle future generazioni la bellezza e la gioia del Risorto; essere “Chiese delle beatitudini”, attente a far germinare una nuova cultura del Mediterraneo, che non può che essere cultura dell’incontro e dell’accoglienza, pena il disordine incontrollato, l’impoverimento diffuso e la distruzione di intere civiltà; essere “Chiese della profezia”, rispetto a ogni sistema di potere e di arricchimento che genera indifferenza, paure, chiusure e, quindi, iniquità, oppressione, guerre, crimini contro l’umanità; essere “Chiese dei martiri mediterranei” che sanno riconoscere i segni dei tempi e sono capaci di dialogo per “disarmare”“ ogni uso blasfemo del nome di Dio in odio al fratello.
Ho avuto l’opportunità di viaggiare molto negli ultimi mesi e di toccare alcune nazioni del Mediterraneo: quanta sofferenza, quanta ingiustizia, quanta indifferenza. Questo è il contesto nel quale siamo chiamati a vivere la nostra comune vocazione per una cultura dell’incontro e della pace nel Mediterraneo. Tale vocazione non può essere destinata a rimanere un semplice buon proposito, ma è l’unica possibilità realistica di benessere e prosperità dei nostri popoli, l’unica via che ne può assicurare la sopravvivenza. È la guerra a essere una tremenda anti-utopia, una tragica farsa sulla pelle dei poveri: nella complessità delle relazioni internazionali, infatti, la competizione fra le diverse potenze non può essere decisa con la forza delle armi, pena la distruzione del pianeta. Nell’era dei droni e delle bombe nucleari, nell’era in cui per la prima volta siamo costretti a fare i conti con il fatto che le risorse della terra non sono infinite e in quella in cui la scienza e la tecnologia hanno connesso il mondo, mettendo l’uomo in condizione di distruggere o salvare il pianeta, non c’è alternativa alla risoluzione pacifica delle controversie e alla collaborazione.
Soprattutto nel bacino Mediterraneo, dove convergono le tensioni e le contrapposizioni del mondo intero, l’alternativa alla pace è il rischio di un caos incontrollato. Gli scontri terroristici e militari procurano morte e sofferenze indicibili alle popolazioni inermi; la comunità internazionale e le organizzazioni sovranazionali gestiscono a fatica le crisi umanitarie che ne derivano, tollerando spesso violazioni ai diritti umani. Dobbiamo dire basta a questa politica fatta sul sangue dei popoli! Dobbiamo pretendere che le controversie internazionali siano affrontate e risolte nel quadro del diritto, del bene comune e di una più forte, più funzionale e incisiva azione delle Nazioni Unite.
Né dobbiamo dimenticarci, cari fratelli, che il muro che divide i popoli è soprattutto un muro economico e di interessi. C’è una frontiera invisibile nel Mediterraneo che separa i popoli della miseria da quelli del benessere, e non conta se al di qua e al di là di questa frontiera ci sono minoranze ricchissime e crescenti impoverimenti. È stata tradita la promessa di sviluppo dei popoli usciti dagli iniqui sistemi coloniali del secolo scorso, mentre sono ridotte le capacità degli Stati più ricchi di condurre politiche sociali inclusive. C’è un nesso inscindibile fra la povertà e l’instabilità: non potrà esserci pace senza miglioramento di vita nelle aree depresse del Mediterraneo e nell’Africa sub-sahariana, non potrà esserci sviluppo sostenibile senza che cambino le regole che sottostanno ad una economia dell’iniquità che uccide. Non potrà esserci arresto delle crisi migratorie e umanitarie senza che sia restituito a ogni uomo e a ogni donna, cittadini del mondo, il diritto di restare nella propria patria a costruire un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, e senza che a questo diritto sia affiancato anche quello di spostarsi. «Liberi di partire, liberi di restare» è la linea che, come Conferenza episcopale italiana, ci siamo dati nella nostra azione solidale nei confronti dei popoli impoveriti.
Cari fratelli, le nostre Chiese non sono diverse solo sulla base di antiche tradizioni che le sostengono e delle culture in cui sono chiamate a portare l’annuncio del Vangelo, ma anche per le condizioni concrete in cui vivono. Tutti però ci troviamo accomunati dalla sfida entusiasmante della trasmissione del Vangelo. Ci sono fra noi Chiese che conoscono un incremento di fedeli connesso al fenomeno delle migrazioni; così, ci sono Chiese che sussistono come minoranze, piccolo seme, in mezzo a popolazioni islamiche. È soprattutto a queste Chiese, alla loro mediazione e al sangue dei loro martiri, che dobbiamo l’anticipazione e la ricezione più profonda della dottrina conciliare sul dialogo interreligioso con l’islam. Fra queste, ve ne sono alcune che, a causa dei rivolgimenti geopolitici degli ultimi 30 anni (con le infinite guerre connesse), hanno conosciuto e stanno conoscendo sfollamenti e migrazioni, con i loro cristiani esposti a persecuzioni e minacce, che rischiano di cancellarne la presenza millenaria.
Sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, i processi avanzati di secolarizzazione, il congedo definitivo dall’eredità del passato e — dobbiamo riconoscerlo — la stessa lentezza con cui stiamo rispondendo alle esigenze di rinnovamento suggerite dal Concilio, dalla «nuova evangelizzazione» e dalla «conversione pastorale e missionaria», ci rendono attoniti di fronte al fatto che la fede è trasmessa solo a una minoranza delle nuove generazioni. Come aiutarci fra Chiese ad abitare un’area mediterranea dove i cristiani sono dovunque una minoranza?
Cari fratelli, pur con le comprensibili differenze, la trasmissione della fede nel contesto mediterraneo odierno è sfida che accomuna tutti noi. Credo che sia necessario e utile non solo il confronto fra vescovi, ma anche l’impegno a far crescere la coscienza fra i nostri giovani che la fede in Gesù risorto genera comunione di vita per la crescita e la realizzazione di un’umanità compiuta. Come far maturare, concretamente, questa coscienza della comunione nella diversità, nei nostri giovani? Essi ci risultano talvolta indecifrabili, inseriti come sono in una rete globalizzata di relazioni e di pluri-appartenenze, riflesso di un’epoca in cui la stessa velocità dei cambiamenti mette in crisi le modalità tradizionali di comunicare il Vangelo e di vivere la comunità ecclesiale.
Carissimi fratelli, lo ripeto: spero che questo nostro ritrovarci sia l’avvio di un processo che ci consenta di condividere e offrire ai nostri popoli una visione non frammentaria, ma complessiva e organica dei problemi e delle ricchezze del Mediterraneo, necessaria per superare le crisi che stiamo vivendo. Noi vescovi, ad esempio, non possiamo vedere la questione dei migranti in maniera settorializzata, come se fosse solo un problema di “esodi” che impoveriscono i territori o di “arrivi” che li destabilizzano: il povero, che parte o che decide di restare, che arriva e che troppo spesso muore durante il viaggio o conosce sofferenze e ingiustizie indicibili, è Cristo che emigra, resta, soffre, bussa alle nostre porte. I problemi, con cui ci misuriamo, costituiscono uno stimolo ulteriore a superare, noi per primi, le barriere che attraversano il Mediterraneo e a intensificare l’incontro e la comunione fra di noi. Ne avvertiamo la responsabilità e l’urgenza, convinti come siamo che la tessitura di relazioni fraterne è condizione per partecipare al processo d’integrazione.
Ho più volte fatto riferimento al dialogo intra-ecclesiale, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso; essi sono “luoghi teologici e pastorali”, strumenti preziosi per la comprensione delle nostre realtà ecclesiali e per offrire il contributo alle sfide dell’area mediterranea in cui abitiamo. Abbiamo la grazia di vivere in una nuova, coraggiosa, coerente e profetica fase di ricezione conciliare inaugurata dal ministero e dal magistero di Papa Francesco che, con l’invito alla conversione pastorale e missionaria, ci spinge ad una più intensa pratica della sinodalità che coinvolge il popolo di Dio nella sua infallibilitas in credendo. Il nostro incontro assume il metodo sinodale e vuole essere a servizio delle dinamiche delle Chiese del Mediterraneo; per questo non abbiamo voluto che queste giornate si riducessero a un convegno internazionale, nutrito di dotte relazioni. Siamo qui, invece, per ascoltarci e porgere al Santo Padre Francesco quanto sarà emerso dallo scambio fraterno, nella speranza che il cammino intrapreso continui e si rafforzi. Lo dico forte anche della tradizione viva della città di Bari, dove con il Papa Francesco si è vissuto uno storico incontro dei Patriarchi del Medio oriente.
Il dialogo fra le religioni abramitiche, a sua volta, contribuisce a disegnare i fondamenti di un nuovo concetto di “cittadinanza” per far fronte alle sfide della globalizzazione del terzo millennio. Papa Francesco e il Grande imam di al-Azhar hanno posto un atto profetico con la loro amicizia e il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Come nota il cardinale Parolin, in questo testo si intravedono le prospettive della comune e paritaria cittadinanza, presupposto e conseguenza di una vera fratellanza. La questione della cittadinanza è cruciale per tutti: è questione che si pone in maniera nuova per gli stessi paesi di antica tradizione democratica con le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, dello spazio pubblico reclamato da tutte le religioni; paesi che si ritrovano a fare i conti con la pericolosa tentazione a involuzioni identitarie, che minano il fondamento dei diritti inviolabili della persona. Nell’area mediterranea — scrive padre Claudio Monge — si confrontano non solo le religioni abramitiche, ma anche “un imponente fronte ‘secolare’, distante da un riferimento religioso interiore e interiorizzato, ma non per questo estraneo a una “manipolazione identitaria” della matrice religiosa, trasformata in ‘religione civile'”.
È questo il cambiamento d’epoca che siamo chiamati ad affrontare: su noi pesa la responsabilità di essere promotori di quella conversione pastorale e missionaria da cui dipende, in tanti luoghi di antica cristianità, la permanenza di una presenza significativa della Chiesa. Aiutiamoci, con parresia evangelica, ad assumere il compito a cui lo Spirito Santo oggi ci chiama. Sentiamo tutta la grandezza di tale compito. Aldo Moro, un martire della terra che ci ospita, un uomo — come lo definì san Paolo VI — “buono, mite, saggio, innocente”, osservava con un misto di realismo e di fiducia: “Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.
(Intervento già pubblicato su L’Osservatore Romano)