La cyberguerra non è paragonabile né ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, né all’11 settembre. Né tantomeno il clima geopolitico attuale può essere paragonato a quello della Guerra fredda. Tutto questo per la natura stessa del mondo cyber e dell’intelligenza artificiale, che stanno definendo la “nuova normalità” della geopolitica. Formiche.net ne ha parlato con Ben Buchanan, assistant teaching professor alla School of Foreign Service della Georgetown University di Washington, senior fellow del Center for Security Studies dello stesso ateneo e global fellow del Wilson Center. È l’autore di “The hacker and the State”, uscito questa settimana per la Harvard University Press.
Ci racconta in poche righe di che cosa tratta il tuo libro?
Se pensiamo agli attacchi informatici come a scontri con aerei che si schiantano e città in fiamme, come un “Cyber 9/11” o un “Cyber Pearl Harbor”, trascuriamo le attività che contano di più. Le nazioni competono tra loro anche tramite l’hacking e questo libro mostra come e perché.
Gli attacchi informatici e la concorrenza digitale stanno cambiando lo scenario?
Sì. Ogni capitolo di questo libro, dai cavi sottomarini al sabotaggio nucleare sotterraneo e molto altro, mostra come le nazioni usano l’hacking per ottenere un vantaggio geopolitico sugli altri.
Gli attacchi informatici di oggi sono come le operazioni nucleari durante la Guerra fredda? Lei ha sostenuto che riguardano molto di più il dominio delle nazioni, altro che i bluff da tavolo da poker.
Questo perché le capacità informatiche non sono adatte al signalling. Possono essere ottuse e tecniche, ed è difficile aumentare la minaccia.
Recensendo il suo libro, il generale David Petraeus, ex direttore della Cia, ha parlato di un “grande libro”, un unicum su come sempre più gli sviluppi nel cyberspazio “stanno definendo la ‘nuova normalità’ della geopolitica nell’era digitale”. Che effetto le fa una recensione simile da parte di un uomo che ha trascorso quasi tutta la sua carriera sul campo di battaglia?
Il generale Petraeus ha avuto una lunga carriera nel campo della sicurezza nazionale, e sono grato che pensi che la mia ricerca aiuti a far progredire il pensiero su come la sicurezza informatica abbia un impatto sull’arte del governo.
Una volta il presidente russo Vladimir Putin disse che “chi controllerà l’intelligenza artificiale governerà il mondo”. È vero? Ma soprattutto, chi controlla questa tecnologia?
Una delle cose straordinarie di questo periodo è quanta ricerca sull’intelligenza artificiale stia avvenendo non tanto nei laboratori governativi quanto piuttosto negli istituti di ricerca privati. Per questo non penso che l’intelligenza artificiale possa essere utilizzata come misura per il controllo e il dominio. Putin aveva detto quella frase a una fiera della scienza. Questo dimostra che anche le nazioni stanno iniziando a vedere le implicazioni geopolitiche dell’intelligenza artificiale.
L’intelligenza artificiale può offrire strumenti all’autoritarismo? Pensiamo alla Russia e alla Cina.
Uno dei temi di maggior preoccupazione per quanto riguarda l’intelligenza artificiale è proprio se e come può essere d’aiuto per i regimi autoritari. È evidente che alcuni regimi stiano già lavorando a tecnologie in questo senso, come il riconoscimento facciale sempre più pervasivo.
La competizione per il vantaggio geopolitico si è spostata nel cyberspazio. Gli Stati Uniti e i suoi alleati non sembrano più in posizione di dominio come una volta. Può essere un’occasione per rinsaldare le relazioni transatlantiche?
La sicurezza informatica è un tema complesso quando si tratta di alleanze. Chi hackeri? Con chi collabori e cooperi? Non vi è dubbio che, almeno dai leak di Edward Snowden, la sicurezza informatica ha complicato anche la relazione transatlantica. Non esistono risposte semplici su questo.